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Iper-narrazioni: il romanzo dopo il romanzo?

di Alessandro Puglisi

La lettura non è un atto passivo, poniamolo come assunto personale da cui procedere. Assunto opinabile, per carità. Esiste altresì, crediamo, una necessità stringente – che però, evidentemente, non molti hanno – di interrogarsi sulla forma-romanzo, tanto più nel tempo presente. Alla luce di una considerazione, magari un poco impressionistica ma, speriamo, almeno equilibrata, e per quanto sommaria, (considerazione di cui si darà conto), di alcune esperienze “letterarie” tra le più recenti, a certuni potrebbe venire da chiedersi (e infatti è la domanda da cui sboccia il presente articolo): morirà il romanzo? Questione ambigua, da esplicitare subito, modificando l’interrogativo in: morirà il romanzo così come lo “conosciamo”?


Missione ardua, quella a cui, muniti di spirito d’avventura, sprezzo del pericolo e umiltà, pazientemente attendiamo. Si accolga la presente dissertazione come un insieme di problematiche poste sul tavolo, magari anche in maniera un po’ confusa (ipertestuale?). Proviamo intanto a definire il raggio d’azione della nostra breve riflessione. Iperromanzo e romanzo ipertestuale. Consci di lasciare indietro, per forza maggiore, un elevato numero di possibili considerazioni sul ventaglio di questioni che già solo questi due termini potrebbero sollevare, proviamo a partire proprio da generiche definizioni.


Italo Calvino, infatti, usa per primo il termine “iperromanzo”, in italiano, nei testi, scritti per il ciclo di conferenze che Calvino avrebbe dovuto tenere ad Harvard nel 1986, e mai realizzatosi a causa della morte dell’autore, testi poi confluiti, postumi, nelle Lezioni americane, parlando (parafrasiamo) di un luogo (testuale ma, come suggeriremo più avanti, non necessariamente o almeno non solamente) ospitante infiniti universi possibili, nei quali vengono realizzate tutte le possibilità in tutte le combinazioni. Lo scrittore parla ancora di macchine per la moltiplicazione delle narrazioni e di organismi letterari costruiti e costituiti da molte storie che si intersecano. Orbene, per dirla in termini più spiccioli: un romanzo che ha qualcosa di più del normale romanzo. Ma cosa? Ed è qui che esplode la questione, seducente e perigliosa, legata alle nuove forme della scrittura, con particolare riferimento all’utilizzo della tecnologia informatica, al livello del medium, ma forse prima e più ancora in relazione alla “filosofia” ad essa sottesa.


In altre parole, le domande che si intende suscitare (e alle quali non daremo che un accenno di risposta, più che altro una vaga e desumibile teoria di parziale risoluzione), in questa sede, sono le seguenti: qual è la differenza, se è possibile individuarla, tra iperromanzo e romanzo ipertestuale? O meglio: l’iperromanzo può essere considerato un ipertesto narrativo? E il contrario?


Ci serve dunque una definizione di “ipertesto”. Uno dei più importanti e noti studiosi della forma ipertestuale, George Landow, ha avuto modo di definire l’ipertesto come un testo composto da spezzoni narrativi, chiamate anche lessìe, messe in collegamento tramite links, collegamenti.


Quindi, giungendo al nucleo, a nostro modo di vedere: l’iperromanzo, pur non presentando in sé una struttura ipertestuale propriamente detta, è passibile di lettura ipertestuale, non fosse altro che per la presenza di note e narrazioni collaterali. Dallo sterminato Clarissa di Samuel Richardson, alla Recherche proustiana, fino a giungere ai nostri giorni, con due (fra numerosi possibili) esempi: Infinite Jest del compianto David Foster Wallace, e Canti del caos del nostro connazionale Antonio Moresco: volumi dall’estensione monumentale che da soli (e nel caso di Wallace, data la scomparsa prematura dell’autore, probabilmente ciò avviene) potrebbero definire in modo organico una poetica.


A una delle domande poste in precedenza abbiamo già risposto; allo stesso modo, ci sembra possibile forzare l’ipertesto narrativo a iperromanzo. Si potrebbe obiettare con la considerazione del romanzo ipertestuale come estrema propaggine di una tipologia, l’iperromanzo, già estrema per definizione e della quale forse solo da poco stiamo cogliendo i frutti, introiettandola (non senza ritrosia, mi pare di capire, almeno presso il “pubblico”).

Tuttavia, preferiamo, in ultima analisi, ancora tenere separate le due forme. Ironicamente, mentre l’iperromanzo “accumula” in progressione, il romanzo ipertestuale è figlio di una propedeutica parcellizzazione narrativa: la quale conduce a frammenti che necessitano di una primaria ricomposizione, al livello dell’autore, e di una secondaria ricollocazione, al livello del fruitore. E siamo di nuovo al punto di partenza, anche se in questa nuova frontiera.


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