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BINARI (3) – Trascendenza in Grazia Deledda e Michela Murgia

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Di Giovanni Turi

Viviamo in un tempo laico, sempre più immemore (quando non matricida) nei confronti della storia che l’ha preceduto e plasmato: ecco uno dei tanti motivi per leggere Canne al vento di Grazia Deledda e Accabadora di Michela Murgia. Le due scrittrici, entrambe di origini sarde, dimostrano una levità stilistica che incanta prima ancora di emozionare e ci restituiscono a colori l’immagine sbiadita del passato rurale della loro isola; un passato in cui la fede era indissolubile dalla superstizione, ma foggiava ogni gesto e ogni riflessione, con esiti non sempre prevedibili…

Grazia Deledda è stata l’unica donna italiana a essere insignita del Premio Nobel per la letteratura (1926): sarebbe già una condizione sufficiente per imporsi di riprendere tra le mani i suoi tanti scritti, magari iniziando proprio da Canne al vento (1913). Perno ideale della narrazione è l’umile e fedele Efix, al servizio delle decadute sorelle Pintor; è incomprensibile la rassegnazione con la quale accetta la miseria e ogni sciagura che segna una nuova ruga sul suo volto raggrinzito, incomprensibile se non la si considera in rapporto al suo rispetto per il volere divino e al senso di colpa per un antico misfatto commesso.

Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque il tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.
Efix si fece il segno della croce e si alzò: ma aspettava ancora che qualcuno arrivasse. Tuttavia spinse l’asse che serviva da porticina e vi appoggiò contro una gran croce di canne che doveva impedire ai folletti e alle Tentazioni di penetrare nella capanna.” (Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori)

Quanti pensano che sia prematuro, o addirittura azzardato, accostare alla Deledda una scrittrice emergente come Michela Murgia, probabilmente non hanno letto Accabadora: un romanzo che pur ritraendo la Sardegna arcana di inizio ‘900 riesce a essere straordinariamente attuale e che supera brillantemente il paradosso di tradurre in parola la memoria orale di questa terra. Uno dei nodi affrontati dall’opera è quello dell’eutanasia, ma la morte dispensata dall’accabadora è dettata da necessità, e non da pietà; altrettanta rilevanza ha il tema della maternità, intensa e innegabile persino quando adottiva e non di sangue. Anche in queste pagine, infine, si affresca una realtà contingente intrisa di spiritualità.

Le anime ci conoscono, sono dei nostri parenti, e quindi non ci faranno del male, perché gli abbiamo cucinato anche la cena. Andría Bastíu a questo pensava, mentre si preparava alla notte del primo di novembre nella sua stanza. Si tolse le scarpe che usava in campagna, ma rimase vestito, che di dormire non aveva nessuna intenzione. L’anno precedente la madre lo aveva fatto stancare apposta tutto il giorno a raccogliere patate, e a sera si era addormentato senza volerlo, tradito dal corpo. Ma stavolta non l’avevano fregato, era sveglio e avrebbe visto le anime mangiare e prendere il tabacco trinciato lasciato sulla tavola, dove la mattina si trovavano impressi i segni delle dita. Così avrebbe saputo cosa rispondere a Maria, quando diceva che le anime non andavano in giro a tormentare nessuno, che la misericordia di Nostro Signore Gesù Cristo non lo permetteva. Se Nostro Signore Gesù Cristo aveva permesso che suo fratello perdesse una gamba, figurarsi se non permetteva ai morti di mangiarsi due culurgiones.” (Michela Murgia, Accabadora, Einaudi)

Giunti al XXI secolo è forse tempo di distinguere la fede dalla superstizione, senza pretendere però di ricondurre la religione a quest’ultima; ma soprattutto non si condannino all’oblio le opere letterarie che hanno segnato il nostro ‘900, e quelle che nell’odierna immensa produzione editoriale hanno la voce autentica dell’Arte.
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