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"Riportando tutto a casa" di Nicola Lagioia

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Di Geraldine Meyer

Questo libro ha un unico difetto: è scritto talmente bene che la bellezza della scrittura rischia di distrarre dalla storia. Poi, piano piano, la precisa eleganza delle parole prende tutte le fibre dell'attenzione e ti immerge nella trama. Nicola Lagioia dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che la lettura della storia può essere solo presbite. Un romanzo di questa portata sugli anni ottanta poteva essere scritto solo trent'anni dopo. Tre adolescenti, tre famiglie con la loro improvvisa ricchezza. E una voce narrante precisa e disorientata al contempo. 

Chi ha detto che negli anni ottanta non è successo nulla? Forse la rappresentazione che ne è stata data è quella di un decennio vuoto e fatuo. In realtà molte cose sono accadute. Le vicende personali di questi ragazzi e del contorno di miseria umana che li circonda hanno come sfondo storico la guerra in Libano, Chernobyl, il ritiro dell'Unione Sovietica dall'Afghanistan, l'esplosione dello Shuttle con una maestrina a bordo, Mandela che, seppure in cella, diventa presidente del Sud Africa. E, spartiacque immaginifico e mitico, il muro di Berlino in frantumi. 

"Una civiltà si compie nel momento in cui si annienta." La frase pronunciata dal padre di uno dei tre ragazzi sembra divenire la chiave di lettura di tutto il romanzo. In questo paese l'annientamento coincide con l'avvento delle tivù commerciali che plasmano ed uniformano i desideri e i modi per realizzarli. Soldi, soldi. Facili, subito e in qualunque modo. Un vuoto di valori colmato con sguardi che non vanno al di là del proprio ombelico. Se si guarda oltre è solo per annusare, più che vedere, l'odore di qualcosa che si disfa. 

La caduta del blocco sovietico è promessa di milioni di affamati che si riverseranno all'ovest diventando carne da consumo per arricchire chi ha avuto la fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto. L'altra faccia della medaglia di questo sfacelo è la diffusione massiccia dell'eroina. Una forma di ribellione che consacra il potere a cui ci si vorrebbe sottrarre. Sostanza che si nutre di morte. E così una bella fetta di gioventù, come la civiltà di cui si parlava prima, sembra trovare la propria compiutezza nel suo stesso disfacimento. 

Bari fa da coreografia a questo teatro di nulla. Nulla però non è niente. Nulla è ciò che viene restituito nel tempo, che viene percepito ed elaborato da uomini e donne troppo impegnati a cercare una via alla celebrità. Che le luci siano quelle del corso principale della città non rende la ricerca meno spasmodica e avviluppata in se stessa. Siamo proprio sicuri che negli anni ottanta non sia successo nulla? Questo, che potremmo definire un romanzo di iniziazione, ci dice ben altro. Usa l'adolescenza, con la sua disperata scoperta di quanto la vita sia complessa, come metafora di un paese intero che sembra invecchiato senza passare per l'età adulta. 

Le vite dei tre amici si incroceranno sui banchi di scuola per snodarsi tra misteri e fascinazioni inattaccabili e che, a diciassette anni, sembrano sovrastare ogni cosa. Rapporti familiari di carta velina mascherati sotto ricchezze volgari e di cattivo gusto. Padri avvocati di cui si sogna tutta la vita una ingloriosa capitolazione. Rancori coltivati con cura per sottrarsi a un giogo che si scioglierà da solo lasciando l'amaro in bocca di una liberazione arrivata per vie naturali. 

E mentre si legge non si riesce a fare a meno di pensare che quella che stiamo leggendo sia la narrazione di un decennio tutt'altro che privo di avvenimenti. La cosa spaventosa è che questi avvenimenti sembrano, ora, non aver avuto nessuna ricaduta sul presente. Sappiamo rintracciare nell'oggi i pezzi del muro di Berlino? Riusciamo a trovare il filo rosso che lega le lotte di quei minatori di Danzica all'elezione di un papa polacco? Ce lo chiediamo ancora? Cosa è rimasto di tutto questo oggi? Viene da pensare che il vuoto non sia quello degli anni ottanta ma quello di oggi.

Così come le vite di quei tre amici sembrano vuote oggi perché non hanno saputo gestire un troppo di ieri. Straziante e commovente il racconto della voce narrante che torna a Bari dopo vent'anni e va a vedere la villa di uno dei suoi amici. Non si può descrivere. Vi invito a leggere le parole con cui l'abbandono di quella casa viene restituito con tutta la sua malinconia. Dove un giorno c'era stata una ricchezza sopra le righe ora c'è solitudine e desolazione. Una piscina vuota e foglie secche. Questo libro meriterebbe di essere letto anche solo per quelle righe. 

La ricostruzione di un passato troppo incombente e non concluso, a distanza di trent'anni lascia le cose ancora più amare di prima. L'amico narrante cercherà di mettersi in contatto con gli altri due, con la ragazza che è stata l'oggetto più esibito che desiderato di entrambi. Si troverà più confuso di prima, forse ancora più impossibilitato nel trovare una risposta. Ciascuno di loro gli mostrerà qualcosa di sé solo per nascondere altro. Forse le cose più importanti. E l'alone di solitudine che sembra avvolgere ognuna delle loro vite li riconsegna a sé stessi più isolati di prima. In un'adolescenza perenne che non li ha accompagnati nella vita adulta. 

Riportando tutto a casa oltre che il titolo del libro sembra diventare un bisogno disperato di rimetter insieme i pezzi. Forse senza riuscirci.
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