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Male e letteratura a Noventa Vicentina

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Di Morgan Palmas

Ho partecipato sabato e ieri a un incontro stimolante: “Male e letteratura”. Andrea Ponso (moderatore), Demetrio Paolin, Emanuele Tonon, Giuseppe Genna, Giorgio Vasta e Adone Brandalise hanno proposto la loro visione di “male e letteratura”.

In un presente che ci soffoca, quasi ci addormenta, che ci aiuta il più delle volte a non pensare, come poter relazionarsi al presente e al futuro senza riflettere sul senso del male e sulla letteratura?
Relatori assai diversi fra loro, quelli che ho ascoltato, eppure alcune prospettive sono comuni. 

In breve, con una pattuita grossolanità, impossibile dire tutto qui, neppure lontanamente, Demetrio Paolin ha raccontato la genesi di un suo romanzo, a partire da un evento preciso della sua vita, durante gli anni dell’università. Si trovava in visita in un campo di concentramento, quel giorno, senza accorgersene, fece alcuni passi in un’area del terreno dove, lo scoprì poco dopo, anni addietro vi erano le fosse comuni. Paolin ne rimase colpito e attraverso una serie di riflessioni ponderate successivamente capì che, da un lato, la vita che stava conducendo non era ciò che davvero voleva, dall’altro lato, la scrittura si impose come una necessità. Nel rapportarsi con il male vi è un rischio, a volte un margine non prevedibile.

Emanuele Tonon, parlando del suo primo romanzo, ha spiegato come numerosi critici non hanno visto la visione gnostica delle sue parole. Tonon, di primo acchito, appare molto serio, con una profondità di pensiero che cerca e che intende trasmettere. Ama i contrasti, i conflitti, i contrasti fra l’Essere e il Fare, i conflitti fra il Dire e il Comunicare. Cita Bukowski adducendo la tesi che ciò che conta è la scrittura della poesia, il resto è nulla. L’impressione che mi fece Emanuele sabato non sarebbe stata leale se non fosse stato lui stesso a dirmi (cosa che non sapevo) di provenire da un piccolo paese vicino Gorizia, città dove ho vissuto per un anno. Una terra che si nutre di conflitti, di identità nascoste o dimenticate, oltre che sempre precarie, lo si vede nella mentalità di tanta gente goriziana o dei dintorni. In quelle terre essere italiani non è come per qualcuno che vive a Noventa o a Torino. E nelle parole di Tonon, soltanto in apparenza così drastiche e orgogliose nel cercare un’essenzialità dell’arte e dell’artista, ho visto il sangue della sua terra natia, i conflitti di chi ha subito un’estorsione d’identità per decenni.

Giuseppe Genna, grande comunicatore, tanto che sabato ci ha fatto sorridere non di rado con la sua dialettica spumeggiante e tagliente, ha descritto come in una sfilata di moda si possa percepire il senso del male, e anche il vulnus letterario. Nell’angoscia non ha luogo un annientamento di tutto l’ente in sé, per dirla con Heidegger, anzi quanto più un soggetto permette al male di albergargli dentro, tanto più quel medesimo soggetto può specchiarsi nella comprensione dell’oggetto e dello specchio fra gli enti. Nell’autocoscienza riflessiva di Genna, pregna di distaccata e istrionica ilarità di fronte ai paradossi della moda meneghina, è esplosa la forma linguaggio e la forma realtà. La forma linguaggio è intrisa delle regole di un ambiente, come i carcerati che giustificano e difendono il male nel celebre romanzo Resurrezione di Tolstòj; la forma realtà, sostenuta dal linguaggio, trova una sua ragion d’essere alimentando quella che pare l’unica via pragmatica per Essere. Ahimè Genna, al pari di Rorty di fronte a madama filosofia, non si accontenta di pretendere di conoscere, ma riflette su tali pretese scorgendo il Male dove altri, in quel contesto di abbacinanti sfilate, godono del Bene.

Giorgio Vasta parte da un riflessione di per sé banale, ma ci siamo abituati a lui, il banale non è banale. La parola “bua”, pronunciata dai bimbi, oppure il loro “muffa 21”, un gioco diffuso a Palermo, nel quale il male si porta con sé toccando l’altro e il ventunesimo che lo riceve è destinato a pagare pegno. Vasta continua poi con fatti biografici, per far seguire attente riflessioni, come quando cita gli altarini dei defunti che si trovano in Via Venere e in Via dell’Olimpo, sempre nel capoluogo siciliano. Il male rappresentato con il silenzio. Che cos’è il canto delle sirene se non un assordante e violento suono silente? Il silenzio e le parole, l’oscurità delle parole in Celan o la necessità del silenzio in Kafka.

Adone Brandalise è fenomenale, ogni volta che mi capita di sentirlo mi porto a casa una matassa di nuove riflessioni che non riesco mai a gestire, tale è la sua stramaledetta lucidità nel procedere che non so se mi risulta più simpatico o antipatico, nel secondo caso perché ciò che io riesco a scorgere delle sue parole non è neppure il 10% di quanto lui in quel preciso istante sta contemplando. Brandalise non è soltanto colto, sa aggiungere la quantità giusta di sale ai cibi letterari che lo nutrono o lo fagocitano in modo inesorabile, in uno scambio di epifanie che chi lo ascolta subisce senza tregua. Anche lui ha parlato del silenzio, dichiarando per esempio che pensare il salvarsi dal male è il miglior modo per incontrare il male e che non pensarlo è il miglior modo per non incontrarlo, purtroppo è una continua agonia fra le due forme, di qua e di là, implacabilmente. Qual è l’equilibrio? Esiste? È il silenzio?

Mi perdonino i relatori se ho cercato di cogliere forse soltanto alcuni elementi delle loro proposte, tentando di assimilare con una visione dall’alto, mutuando da loro pietre su cui poggiare le mie precarie riflessioni. Giovedì vi dirò proprio questo: ciò che ho pensato su tali tematiche.
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