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La rapidità dello spirito e la prima impressione (di sospetto)

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Di Michele Ruele

Penso spesso a un passo di Elias Canetti. (E mi scuso se in questo post userò tante volte la prima persona; eviterò la parola “io”, almeno questo; “io” andrebbe censurato insieme ai famigerati “attimino” ecc.).

«È una prerogativa del “bello” che non si possa più rivederlo? La percezione del “bello” è repentina e tuttavia richiede raccoglimento: vogliamo vederlo fino in fondo e senza essere disturbati, per sempre. Quando lo rivediamo non è più lo stesso – salvo nei casi in cui non l’abbiamo visto fino in fondo.
La cosa vista fino in fondo sussiste ancora solo dentro di noi, si è staccata dalla propria realtà. Mentre la percepiamo, la cosa vista diventa una cosa captata, come se l’avessimo presa delicatamente tra le mani e solo così la conquistiamo profondamente. Per averla, la repentinità non basta, per quanto repentino sia l’effetto che la cosa ha su di noi.
È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo dell’occhio e la silenziosa pazienza delle mani.»
Elias Canetti, La rapidità dello spirito, Adelphi

Ma più ancora che al suo contenuto penso a una sua conseguenza, o mi do a un pensiero collaterale.
Si tratta di questo: di come gestire la diffidenza per il proprio gusto, per quella particolare forma del gusto che è la prima impressione, o l’impressione che accompagna l’esperienza estetica e la segue immediatamente. Ecco, in generale diffido di questo stadio del gusto.
In particolare sto in guardia quando l’impressione mi suggerisce turbamento o addirittura repulsione o disgusto. Ho capito che c’è una profondità strana in quel disgusto e che le cose potrebbero andare in direzione opposta a quello che la sensazione mi porterebbe a capire e a decidere.
Ecco, la rapidità dello spirito si manifesta anche con reazioni “a pelle” che l’uomo educato deve imparare a lasciar maturare. L’indugio fa bene al gusto, sia che si tratti di verificare un’esperienza che piace sia che si debba mettere alla prova una circospezione o un sospetto. A me succede anche con le persone e con i luoghi, non solo con le opere artistiche.

Ho il sospetto che talvolta ci piaccia quello che non ci piace.

Tutto questo non toglie niente al piacere delle impressioni superficiali e immediate, alla fruizione senza filtri e riflessioni, oppure alla rapidità delle percezioni e delle sensazioni brevi e mutevoli o fluttuanti. Anzi.
E non significa che non valga anche un’altra meccanica, quella dell’entusiasmo che corrisponda poi a uno stabilizzarsi del piacere, senza contraddizioni.

Del passo di Canetti mi interessa quello che lui stesso ha messo in corsivo: per sempre. Cosa mi resta per sempre? Non importa cosa resta uguale per sempre, credo; l’importante è che ci sia un per sempre. Anche fosse un per sempre disgustoso. Ma per sempre può restare anche la mutevolezza, o una serie di variazioni che ci accompagnano negli anni e nelle riletture.

La prima lettura di alcuni libri di Steinbeck è andata così, per me. L’inverno del nostro scontento l’ho quasi detestato, e invece poi si è conficcato nel mio pensiero, alcuni suoi particolari perfino in maniera ossessiva. Oggi posso dire che “mi piace”, e in questo “mi piace” non c’è nessuna superficialità, è il segnale verbale di una stratificazione vertiginosa.

Anche il contrario. A sedici anni ho letto tutto Hermann Hesse (il primo titolo l’aveva suggerito il professore di filosofia a scuola), adesso non ce la farei: come dice Tabucchi in Notturno indiano, per gli adulti in quelle pagine c’è troppo miele (nella biblioteca di qualunque adolescente Hesse ci sta bene). Per non parlare del gorgo di alcune canzonette sentimentalissime che a diciassette anni sapevo a memoria, di cui taccio per vergogna.

Ho sbagliato spesso (ma poi mi sono redento). Ho detestato e poi amato i racconti di Checov, le poesie di Carver, i racconti di Salinger, le Variazioni Goldberg e in blocco Dostoevskij. La pittura di Klee; e invece restai affascinato dagli omini volanti di Chagall che oggi depreco.

Forse a volte la diffidenza deriva dal fatto che non si ha tempo o l’energia o la voglia sufficienti e allora ne facciamo un mezzo per rimandare l’approfondimento a un’altra volta. Dunque, penso, è un lusso: ci si prende l’agio di indugiare, di darsi un altro appuntamento, di moltiplicare le chance.
Rileggere: il piacere profondo di rileggere, riascoltare, incontrare un’altra volta.

È anche il mezzo per liberarsi dalla coazione a ripetere, per invitare se stessi alla rilettura, alla ripetizione variata. Alla contestazione, alla verifica e al rispetto; all’educazione di una ricezione libera.

In fondo, alla fine quel brano di Canetti l’ho praticamente rovesciato di segno. Credo che contenga una complessità irriducibile: lampo dell’occhio e silenziosa pazienza delle mani non sono riconducibili a un rapporto lineare, senza contraddizioni.

La prima volta non avrei mai detto che mi sarei poi concesso decine di (re)visioni di Jules et Jim e di molti altri film di Truffaut. Moby Dick di Melville fu una prima lettura faticosissima. Diffidavo di Montale, all’università. La poesia di Attilio Bertolucci mi sembrava stupida, quella di Zanzotto presuntuosa. L’anarchia di Gianni Celati mi lasciava indifferente. Non capivo e mi disturbava il teatro di Pippo Del Bono. Ho capito tardissimo la grandezza del teatro danza di Pina Bausch.

Cerco di usare il lampo dell’occhio e la pazienza delle mani, mi chiedo cosa succederà per sempre quando leggo i libri appena usciti. Metto qui solo qualche titolo assolutamente casuale. Non provo quasi niente di tutto questo con La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e con Bianca come il latte rossa come il sangue di D’Avenia. Devo farmi ancora rigirare fra le mani Dioblù di Paolo Colagrande. Ogni volta che leggo qualche pagina di Emanuele Trevi la devo poi lasciar decantare per moltissimo tempo: a volte resiste, a volte no.
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