Il dolore: destino comune dell’umanità
Autore: Adriana PediciniLun, 22/03/2010 - 07:20
Di Adriana Pedicini
I sentimenti, e tra essi quelli legati al dolore, in tutti i tempi hanno trovato nella poesia la loro voce, e nella poesia si sono espressi e decantati: l’esperienza del singolo, attraverso la trasfigurazione poetica, è così diventata esperienza e patrimonio dell’umanità.
1. Il dolore dell’esilio nella Consolatio ad Elviam matrem
Seneca consola la madre del proprio esilio, dando prova di una sofferta maturazione spirituale che diventa nel “Ad Helviam matrem de consolatione” (14-15) generatrice di una pagina di alta poesia e contemporaneamente un monito per quanti soffrono della lontananza dei loro cari:
“Quanto più dura è la prova, tanto maggiore è il coraggio che devi mostrare, e devi lottare accanitamente come con un nemico noto e vinto già altre volte” (trad. Edda Sacerdoti).
La singolarità della situazione (il consolatore che consola di una cosa per cui andrebbe egli stesso consolato) dà un sapore d’originalità all’opera, superando gli exempla del genere. Infatti egli gradualmente supera tutti i luoghi comuni legati a tale incommodum: la povertà, la lontananza, il disprezzo attraverso varie citazioni ed esempi. Tuttavia il rimedio più alto all’esilio, Seneca lo indica nella contemplazione della natura, nel godimento della scienza, della ricerca che più di ogni altra cosa può appagare l’animo umano, perché più di ogni altra sa di eternità.
2. Il dolore della morte nelle Consolationes ad Polybium e ad Marciam
“Grave est” (Cons. ad Marc. 17,1) è l’obiezione che Seneca in risposta rivolge a Marcia addolorata dall’irrimediabile perdita del giovane figlio Metilio. Chi nega infatti che sia una cosa dura da sopportare? “Sed humanum est” vale a dire che la durezza della perdita non può non essere compresa nella generale durezza della nostra vita, che deve esserci nota. La tendenza ad attutire la sofferenza vorrebbe farci ritenere straordinario, non umano, tutto ciò che ci colpisce così duramente. La vera cura, secondo Seneca, consiste nel capire, nel non chiudere gli occhi di fronte alla realtà della condizione umana.
Lo stesso tema è trattato nella Consolatio ad Polybium, indirizzata a Polibio, liberto di Claudio in occasione della morte del fratello; gli argomenti della consolazione sono gli stessi: l’inutilità del compianto, la non sofferenza dei morti, il valore del ricordo, l’universale necessità della morte (Cons. ad Polyb. 18, 9).
3. Il dolore delle morti immature negli epigrammi di Marziale
Non mancano in Marziale, originale poeta latino, squarci di poesia dolente, come quando egli sembra intristirsi davvero per la morte della piccola Erotion, una servetta nata in casa sua e morta improvvisamente alla tenera età di sei anni. Gli epigrammi a lei dedicati trasudano di vero dolore (Ep.34, 37 L.V), (61,L.X).
Altri epigrammi composti in occasione di morti giovani sono il L.I,101 composto per il suo giovane segretario Demetrio, morto a soli diciannove anni, e quello composto per la morte di Canace, una bimba scomparsa a sette anni, dopo che un male incurabile le aveva progressivamente corroso il viso (XI,91).
4. Dolore come indignatio nelle satire di Giovenale
L’imperversare del vizio e della corruzione in una società ormai alla deriva in cui i mores “pallentes” Persio) nascondono sotto un apparente splendore il vizio che corrode gli organismi dall’interno spingono Giovenale ad abbandonare storie di mostri e di altri animali attinti dalla mitologia (!) e a chiedere aiuto alla “Venusiana lucerna” , la musa satirica e salace di Orazio per fustigare una serie di comportamenti ai limiti del verosimile (le nozze di un eunuco, una matrona che si esibisce in mezzo ai gladiatori, un marito ruffiano che arraffa i beni dell’amante della moglie ecc.). Sebbene si tratti di comportamenti ascrivibili probabilmente a una generazione di Romani già abituata a vivere immersa nella degenerazione e nella corruzione, Giovenale in un accesso di rabbia cupa si sente scoppiare di bile, e tenta di sfogarsi nella satira. D’ora in poi tutto ciò che fanno gli uomini sarà oggetto della sua opera (quidquid agunt homines…..nostri farrago libelli est) (I,30-31;45;63-64).
5. Dolore e sofferenza d’amore
Polifemo innamorato. La rappresentazione bucolica del Ciclope, essere deforme e incivile, languidamente intenerito dalla passione d’amore per la bella Ninfa Galatea, è un tema che ebbe grande diffusione sia letteraria che iconografica, a partire dal IV secolo AC. Essa ricorre nell’idillio VI di Teocrito (I cantori bucolici) e nell’Idillio XI, Il Ciclope, concepito nella forma dell’epistola consolatoria inviata all’amico Nicia, afflitto da una delusione amorosa. Partendo dall’assunto che solo la poesia può lenire le ferite prodotte dall’amore, il poeta introduce la figura del Ciclope innamorato ritraendola con sottile vena umoristica, indugiando sull’ingenuità goffa e maldestra del suo appassionato corteggiamento.
Il turbamento di Medea per Giasone. Nel contesto di avvenimenti sentiti come frutto di inutili e strane imposizioni di cui gli Argonauti sono protagonisti, si distingue per il taglio psicologicamente eloquente la vicenda d’amore di Medea per l’eroe greco, che è costretto a ricorrere all’aiuto delle sue arti magiche. Di sapore euripideo, il sentimento che la pervade si sviluppa e l’avviluppa con i palpiti, le emozioni, i turbamenti non già della donna esperta, ma della fanciulla in fiore che poco a poco scopre in sé la capacità di amare e a questa capacità dà alimento in una sorta di sogno-visione-incantamento l’aspetto dell’eroe, l’abito che indossava, il suo modo di parlare… e nel pensare a tutto ciò sembrò a Medea che simile a lui non ci fosse nessun altro uomo (Apollonio Rodio, Argonautiche (III,442-471).
Altri riferimenti
La storia d’amore di Aconzio e Cidippe (Callimaco, Aitia, III, fr. 75, 1-49)
Cloe ammalata d’Amore (Longo Sofista, Dafni e Cloe, I, 13-14)
L’arma sottile della gelosia (Saffo fr. 31 V.), Luciano di Samosata (Dialoghi delle meretrici, 8)
Catullo, carmina 8, 51, 72, 76, 85
Properzio, Elegie, I, 19
Oltre l’antico
Amore e morte, G. Leopardi, Canti XXVII, 1-73
CONTINUA…
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