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Camp a oltranza 1: i preliminari

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Di Giovanni Ragonesi

“Scrivo come vivo e la mia vita è piena di citazioni.” Susan Sontag.

Nel 1972 l’attrice Andrea Feldamn, dopo i successi underground riscossi coi film realizzati alla Factory, decise di andare “nel posto più di moda, il Paradiso”. Invitò alcuni amici, tra cui Jim Carroll, all’angolo tra la Quinta avenue e la 12th street, e, stringendo tra le mani una lattina di Coca Cola e un rosario, si gettò dalla finestra del suo appartamento.
Quando la notizia arrivò alla Factory Andy commentò, mani congiunte al fianco destro: “Accidenti. Perché non ce lo ha detto? Saremmo andati a filmarla.”
La reazione di Warhol, tolte le emozioni indignate tipiche del pubblico di una qualsiasi trasmissione pomeridiana su Rai 2, potrebbero imparentarsi con Oscar Wilde, il quale, in una occasione conviviale, si trovò ad affermare, con tono compassato, che nessun lutto avrebbe potuto coinvolgerlo come la morte di certi protagonisti di Balzac.
La morte, spettacolare e drogata, di Andrea Feldman avrebbe potuto essere fatta oggetto d’arte e da quest’ultima essere nobilitata. Era stato uno spettacolo non veicolato dal giusto mezzo, la cinepresa.

Possiamo ricondurre questa attitudine, questa forma di sensibilità, che inquadra ogni evento del nostro vivere sotto una prospettiva estetica, a un atteggiamento Camp.

La prima traccia, il primo tentativo di definizione di Camp, lo troviamo nel 1954 in un romanzo di Christopher Isherwood, Il mondo di sera, in cui si legge “In qualcuno dei tuoi voyage au bout de la nuit ti è mai capitato di imbatterti nella parola camp?” Poi il narratore prova a darne una prima bozza di definizione, pur cosciente della impossibilità dell’impresa, dicendo che il Camp può essere definito come quell’atteggiamento che porta a vedere ciò che è fondamentalmente serio in termini di umorismo, di artificio, di eleganza.

Nel 1963 si ha il primo tentativo di inquadramento critico con quel sublime saggio che è Note sul Camp, ad opera di una colta e disinvolta Susan Sontag che trentenne si impone sulle pagine della Partisan Review.
Da allora, soprattutto nella cultura anglo-americana, passando poi per quella francese e tedesca senza tralasciare né la danese né la spagnola (ma soltanto en passant qui da noi, troppo assorti in seriosissimi sperimentalismi di maniera), di Camp ci si è occupati in modo a volte anche serio, ritenendolo un approccio critico di estremo interesse malgrado la sua inafferrabilità e l’impossibilità – congenita – di essere oggetto sistematico di trattazione.
Il Camp, da Sontag in poi, è frammentario, esoterico, elusivo, eterogeneo, elitario: “è un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico”.

Il Camp è. Un oggetto non nasce campy, né lo diventa a un certo punto della sua storia. Semplicemente gli può capitare di essere visto e vissuto da una sensibilità Camp: e qui si ribadisce, che l’oggetto del nostro discorso non è un approccio critico, non è una questione di filosofismi, bensì soltanto, in tutto il suo estremismo, una questione di sensibilità. Pertanto non può avere inquadramenti teorici o spiegazioni con alla base un sistema di pensiero.

Il Camp sta al postmoderno in maniera quintessenziale. Con fare campy ripetiamo con Umberto Eco, ma facendo scendere di una ottava l’impostazione della voce: “Come direbbe Liala, ‘Ti amo’.”

Il Camp non ha padri, ma se potesse scegliersene uno, senza esitazione farebbe il nome di Oscar Wilde e come madre alternerebbe Greta Garbo a Joan Collins, a seconda della fase lunare.

Il Camp si aggiorna costantemente, in maniera naturale; è in continua evoluzione. Così se in epoca vittoriana Aubrey Beardsley era inevitabilmente camp, oggi lo è anche La Pina che biondissima ascolta i neomelodici e si tatua ogni angolo di corpo e posta di continuo commenti su FaceBook e non vive senza Diego.
È camp pure l’attitudine giapponese di non guardare la fontana di Trevi se non attraverso l’obiettivo della macchina fotografica.
È camp leggere con alternanza di commozione e divertimento le pagine sudate di Emily Brönte, per poi passare a quelle umide e palpeggiate di Isabella Santacroce.
È camp Marcel Proust che in un vecchio dipinto di Domenico Ghirlandaio ritrova le fattezze del marchese de Lau. Lo è pure Monica Vitta che rossa si duole per il malessere dei suoi capelli ma poi bionda e sguaiata reclama la sua frutta gialla. Neppure il venerabile Hegel si esime dal camp quando con fare da drag queen chiude secco una polemica con Schlegel.
Non ci sono ambiti del nostro vivere quotidiano in cui il Camp non possa infierire: qualcuno assai azzardoso potrebbe affermare, senza possibilità di essere smentito (e noi lo faremo), che Silvio Berlusconi rappresenta l’apologia del Camp.

Il Camp può essere High e nel contempo Pop. La sua natura scriteriata glielo consente.
Verdi è camp in versione haute couture mentre Baglioni ne è la versione prêt a porter.
Arbasino è Camp in versione upper class mentre Busi lo è in versione en masse.
Le lampade Tiffany sono una espressione di camp retrogarde invece quelle Mathmos lo sono in accezione pop-glamorous.

Il Camp adora le liste autoreferenziali, un po’ come un adolescente che in ricreazione seduce la sua nuova preda elencando gusti musicali e hobby rivelatori. Ma alla lunga può risultare noioso e noi, come la preda adolescenziale, attendiamo impazienti la fine delle prove di biologia per constatare, empiricamente, cotanto sfarzo come se la cava in azione.

Diamo qui conclusione ai preliminari per darci modo e tempo in altra occasione, se ne avremo voglia, di passare dagli sguardi dal buco della serratura ad azioni più ravvicinate.


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