Tra tradizione e innovazione ovvero il riuso del passato
Autore: Adriana PediciniLun, 22/02/2010 - 09:00
Di Adriana Pedicini
La memoria del passato in fatto di poetiche e di fenomeni letterari è fenomeno non raro, sebbene a volte più camuffato nell’inconscio collettivo che adottato come esempio da seguire con consapevole intento.
Tale fenomeno fu particolarmente vivace nel periodo ellenistico.
La figura dell’intellettuale in tale periodo si trova a dover fare i conti infatti con una tradizione culturale che ormai viene sentita come superata e soprattutto con generi letterari svuotati dei valori collettivi di un tempo, sia che fossero di natura politica, etica o religiosa, e per questo profondamente innovati. Naturalmente in tale clima fioriscano polemiche e contese che hanno per oggetto contrastanti visioni della letteratura e dell’arte. A farne le spese è soprattutto il mito, troppe volte “corrotto” con varianti o rivisitazioni.
I maggiori rappresentanti di tali polemiche letterarie furono Apollonio Rodio e Callimaco.
Apollonio Rodio lega la sua fama alle Argonautiche, un poema scritto in esametri, suddiviso in 4 libri, per circa 6 mila versi. L’argomento è costituito dalla più celebre spedizione panellenica prima di quella contro Troia. Ad essa partecipano i più valorosi guerrieri greci della generazione pre-troiana. Tutti sono detti Argonauti dalla nave Argo con cui il viaggio viene effettuato e sono guidati da Giasone.
Apollonio concentra nel suo poema tutti gli elementi caratteristici dell’epos omerico (il catalogo, l’assemblea, la profezia, l’intervento divino) ma li svuota del loro senso originario, lasciando addirittura il sospetto di intenti parodistici. Le trasgressioni dello statuto epico si manifestano nel particolare uso di certe strutture formali, il quale uso sottolinea la lontananza del poema di Apollonio dal suo modello ufficiale, così come il rifiuto dello stile formulare spinge il poeta a variare spesso moduli espressivi cristallizzati, come ad esempio il verso che in Omero descrive con parole quasi identiche il sorgere dell’Aurora “dalle dita rosee” e che risulta invece in Apollonio sempre diverso. Inoltre l’impiego delle similitudini costituisce un’altra occasione per prendere la distanza dal modello, scandite come sono spesso su toni intimistici, tipici dell’arte ‘borghese’ di età alessandrina.
Ma la trasgressione più evidente dei canoni epici tradizionali riguarda quello dell’impersonalità, che Apollonio infrange più volte con l’uso della prima persona e l’inserzione di domande e considerazioni che spezzano il continuum della narrazione e rivelano una pratica tutta ellenistica, cioè quella della riflessione metodica sul fatto artistico. Come quando nell’esordio e nella chiusa del poema afferma l’originalità della propria creazione ed esprime l’orgogliosa consapevolezza del suo destino non caduco.
Inoltre le ridotte dimensioni del poema rispetto a quelli omerici e la suddivisione in 4 libri lo avvicinano piuttosto alla composizione della tetralogia drammatica. Ancora, il poema ha una struttura circolare, cioè il punto di partenza e la meta ultima del viaggio coincidono a differenza dei poemi di tipo odissiaco. Inoltre il senso di amechanìa, di incertezza domina buona parte del poema e condiziona il protagonista Giasone che peraltro non si sente motivato all’impresa e ad affrontare i pericoli che essa comporta, al contrario di quanto succede invece ad Ulisse, teso a ritornare alla sua patria Itaca. Poi, a differenza dell’Odissea in cui la vicenda inizia in medias res, devia momentaneamente verso il passato nel racconto del protagonista (Ulisse racconta i propri casi alla corte dei Feaci), e si salda infine all’inizio col prosieguo della narrazione, Apollonio descrive in modo rigorosamente cronologico la successione dei fatti, ma nello stesso tempo la frantuma e la complica con frequenti excursus eziologici riferiti al presente, con frequenti retrospezioni e anticipazioni degli eventi narrati.
Esaminando invece il contenuto delle opere di Callimaco si possono riscontrare dei luoghi (prologo degli Aitia, giambo XIII) in cui il Poeta enuncia i principi della sua poetica in chiave di posizione antiaristotelica.
Dopo aver affermato nella sua Poetica che ogni narrazione deve avere una certa lunghezza, Aristotele precisa nel prosieguo dell’opera che proprio la lunghezza della composizione caratterizza, insieme al metro, l’epopea e che questo giova alla grandiosità del genere. Callimaco e i suoi seguaci violano consapevolmente questa regola e mettono in discussione la tradizionale partizione aristotelica dei generi letterari, ideandone di nuovi, come l’idillio, l’epillio, il mimo, o innovando con disinvoltura i contenuti, mescolando forme metriche e linguistiche con un gusto della contaminatio e della varietà. Inoltre la notevole erudizione presente nella poesia di Callimaco, lungi dal rappresentare un limite all’originalità e alla novità di essa, costituisce invece il cardine di una teoria letteraria che all’imitatio (mimesi) come essenza dell’opera poetica, tende a contrapporre nuovi procedimenti stilistici di tipo allusivo-emulativo.
Quando Callimaco dice che egli non canta nulla di non attestato, non intende contraddire quanto dice nel prologo degli Aitia e cioè di voler percorrere luoghi non percorsi dai carri e di non voler calcare le orme degli altri, ma vuole solo precisare che il suo rifiuto dell’imitazione non implica il ricorso alla pura invenzione e che originalità non equivale a infondata fantasticheria. In questo senso il richiamarsi al dato erudito costituisce il supporto di una poetica che aspira alla verità, vale a dire alla genuinità dell’ispirazione che trova nell’acqua pura che zampilla dalla fonte le uniche fonti da emulare, cioè egli ricorre direttamente a quei poeti che rientrano nella sua sensibilità e che, pur non dichiarati apertamente, sono ravvisabili da parte dei dotti lettori nelle allusioni che sottendono ai suoi versi.
In conclusione ognuno è figlio dei suoi tempi e il passato lungi dall’essere una rievocazione nostalgica “sol nel passato è il bello” o un guscio in cui rintanarsi in maniera sterile, va visto come una riscoperta delle nostre radici e un punto di partenza per l’evoluzione del gusto letterario e delle esperienze artistiche.
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