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Intervista a Fabio Genovesi

Di Morgan Palmas

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Mi ci sono avvicinato per caso. Passavo di lì. Ho sempre letto di tutto, romanzi fumetti giornali riviste di caccia e diari degli altri, e allo stesso modo scrivevo di tutto. Mi appassionavano i manuali, di qualsiasi specialità. Secondo me uno che poteva scrivere un manuale meritava grande rispetto perché vuol dire che su quella cosa la sapeva lunghissima. Credo di aver cominciato col sogno di scrivere un manuale, poi però ho capito che la narrativa era più comoda, offre margini di invenzione enormi e non sei tenuto a sapere troppe cose su quello che racconti, forse. Dentro la mia scelta quindi c’è anche un po’ di pigrizia, forse.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Sono entrambi necessari, come le patate e il latte se vuoi fare il purè, solo che bisogna dosarli attentamente per evitare che il risultato sia troppo pastoso e asciutto o all’opposto papposo e molliccio. Forse l’istinto creativo deve avere più spazio in partenza, ci deve essere una temperatura molto alta nelle camere di avviamento, si deve sudare, i vetri devono gocciolare. Poi però la razionalità prende il materiale incandescente e lo maneggia per trovarci dentro l’anima più consistente. Insomma la distanza tra i due poli è variabile durante la scrittura. Scrivere è anche muoversi, andare e tornare, allargarsi e stringersi. È una specie di sport anche. E una fisarmonica.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

All’ispirazione come attimo di rapimento mistico non ci ho creduto mai. È perfetta come scusa per quelli che non hanno voglia di fare niente e allora restano in attesa dell’illuminazione. Certo, ci sono giorni che la penna scorre con una facilità che non sembra nemmeno appartenere a te, e altri che invece ti pianti a ogni riga e fatichi anche solo per chiudere una pagina. Però intanto quella pagina la chiudi, o almeno arrivi a sapere come NON devi scriverla.
Io la vivo così la scrittura. Non c’è molta differenza tra lo scrittore e il muratore e il riparatore di orologi. Mi alzo presto e mi metto a lavorare, e tengo degli orari fissi cercando di fare più che posso e meglio che mi riesce. Per me questo è il lavoro, qualsiasi lavoro. Mio padre era operaio, mio zio giardiniere, i miei nonni contadini e marinai. Così ho sempre visto fare intorno a me, così faccio anch’io. Sudo di meno e non mi spacco le mani, ma la schiena mi fa male più che a loro. Mah.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Della musica. Ma a volume serio. Non un sottofondo da centro benessere, né un bisbiglio nelle cuffiette. Parlo di musica che esce da casse grandi e scaldata da un amplificatore. A volte mi convinco che per scrivere un certo capitolo mi serve per forza quel disco specifico, e se non lo trovo in casa perché l’ho messo chissà dove, rimando il capitolo a quando l’ho ritrovato e salto a quello dopo.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

I grandi del passato stanno lì a mostrarci le strade possibili, e mentre ce le indicano cerchiamo di fregargli quel che possiamo. Ma per me non si tratta solo di scrittori. Non faccio distinzione tra scrittori, musicisti, sportivi, esploratori. Muhammad Alì mi guida quanto Fitzgerald, Shackleton quanto Faulkner.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

No, non esiste più nessun posto di quel tipo. E può essere spiazzante. Il giovane che aspira a lavorare nel cinema deve andare a Roma, quello che vuole moda e pubblicità punta su Milano, chi invece vuole scrivere dove va? La mia risposta è: dove scrive meglio. Che può essere anche casa sua, e se non lo è, lo deve diventare. Non ci sono più quelle tavolinate di scrittori e critici nei celebri bar, raduni intellettualissimi dove si discuteva di movimenti e scelte e valori estetici e contenutistici, e personalmente credo che non ci perdiamo nulla. Qualche bicchiere offerto, ecco, nulla di più.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Certo che sì. Non so pensare la mia vita senza scrittura più di quanto sappia pensare la scrittura senza vita. Se ti capita una cosa spiacevole, hai la consolazione che magari finisci per scriverne qualcosa di buono. Se ti va di fare una cosa scema o assurda, hai la scusa perfetta che lo fai perché devi scriverci sopra. Insomma la scrittura è anche un grandissimo partner per qualsiasi crimine. In più ti pagano. Sì sì le voglio bene, c’è poco da fare, le voglio tantissimo bene.

La ringrazio e buona scrittura.

Io ringrazio lei e i suoi lettori.


http://www.facebook.com/fgenovesi

Fabio Genovesi ha scritto la raccolta Il Bricco dei Vermi e il romanzo Versilia Rock City (Transeuropa), scrive per il cinema e per varie riviste e giornali, ha tradotto Lee Ranaldo, Les Claypool e l’ultimo libro di Hunter S. Thompson, “Hey Rube”, appena uscito per Fandango. Il suo secondo romanzo è in uscita per Mondadori.
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