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"Bianca come il latte rossa come il sangue" di Alessandro D'Avenia

Lo studente di liceo innamorato accompagna il cane e parla un po’ con se stesso e un po’ con le cose, come Petrarca con i boschi, il fiume, le balze:
 
«… i sogni ce li prestano i grandi creatori della bellezza.
Così dice il Sognatore. Non so bene cosa significhi. Ma so che mi piace. Ci devo provare. Mi devo fare consigliare, ma senza crederci troppo, perché io sono uno con i piedi per terra. Una vita senza sogni è un giardino senza fiori, ma una vita di sogni impossibili è un giardino di fiori finti… tu che ne pensi, Terminator?»
Terminator per tutta risposta si pianta contro un palo e piscia. La sua pisciata è proporzionale alla lunghezza dei miei discorsi.
«Grazie, Terminator, tu sì che mi capisci…»
 
Leonardo è un ragazzino sveglio, è intelligente e ironico, quindi è probabile che l’umorismo sia volontario. Ma l’impressione del lettore è diversa, e piega decisamente verso l’involontarietà. Il perché è evidente: nella maggior parte delle pagine (narrate in prima persona) la voce del sedicenne Leonardo è quella del trentenne autore.
 
Non è solo come avviene di consuetudine nella macchina del racconto, quando il narratore o l’autore prestano la loro voce ai personaggi. Per es. il ragazzo «con la faccia a mela» di Ultimo viene il corvo di Italo Calvino non pensa né dice le parole « La corrente era una rete di increspature leggere e trasparenti, con in mezzo l’acqua che andava», è bensì Calvino a prestargli i mezzi espressivi e forse anche il pensiero.
 
Nel romanzo di Alessandro D’Avenia il rapporto fra narratore/autore e personaggio è irrisolto e succede qui quanto succede altre volte nei romanzi “adolescenziali”: cioè l’uomo di trent’anni sovrappone se stesso al sedicenne di cui sta narrando la “vita nuova”.
Si affastellano prospettive e immagini: l’adulto che ha nostalgia si dissolve nel ragazzo che cresce e si accavalla alla sua prospettiva ingenua, il ragazzo sa già fin dall’inizio cosa deve imparare e a chi chiedere come e dove impararlo. Tanto è solo questione di tempo e di composizione di un destino già bello ordinato. Una volta dicevano paternalismo, ma in questo caso è troppo dire paternalismo, anche perché non pare fosse nelle intenzioni di D’Avenia.
 
Prospettive multiple composte, toni su toni: un’operazione di bracketing letterario. Alla fine l’immagine sembra vera e precisa, e bella in quanto molto vera: ma è molto artificiale.
 
Comunque bianca come il latte / rossa come il sangue di Alessandro D’Avenia è una storia di sentimenti che pur andando abbastanza sul sicuro (schemi basilari come quello della Vita Nuova di Dante, l’amore da lontano e scorporizzato tra provenzale e stilnovistico, il binomio amore-morte, l’associazione amore sacro e amore profano, il rapporto maestro/discepolo che funziona bene) ha un certo coraggio: la scelta di campo è trattare di scuola mettendoci passione, fiducia positiva, affermazione di valori “buoni” come quelli dell’amore, della famiglia, dell’intelligenza, della cultura, della ricerca di senso.
 
Ma ecco, incipit e explicit dei rapidissimi capitoli suonano sotto specie di aforisma da cioccolatino perugina e starebbero bene nelle rime baciate di Sanremo. Comunque, va detto, sono aforismi di una certa qualità, lontani anni luce dalle incredibili regressioni alla Moccia, per fare un esempio chiaro.
Ci sono pagine emozionanti, come quelle della presa di coscienza da parte di Leo della malattia di Beatrice. La lettura, insomma, dà qualche soddisfazione.
 
Un romanzo di adolescenti, scuola, professori. C’è un modo di affrontare gli adolescenti e gli studenti che in molti danno per scontato essere buono, quello del professor Keating in L’attimo fuggente di Peter Weir: in interviste e sul suo sito D’Alvenia lo indica come modello.
Si diventa impopolari, ma è doveroso sottolineare l’ambiguità di quel modo di porsi. Meglio quello del maestro Jean-François Richet di Gli anni in tasca di François Truffaut, che mantiene comunque una distanza dai ragazzini e dal loro mondo.
 
È interessante l’operazione di D’Avenia, e nelle recensioni si sottolinea spesso: associare la Vita Nuova e le domande su Dio e la morte alla cultura pop e alla subcultura giovanile che i giornali sottolineano ogni giorno (assicurandone fra l’altro la superiorità).
 
Forse non fa male ricordare alcune osservazioni di Claudio Giunta in L’assedio del presente (il Mulino, 2008): «… l’unica cultura realmente condivisa oggi è il pop. Nella vita quotidiana, nella normale conversazione, la cultura scolastica non ha quasi mai l’occasione di essere spesa… Il vero collante tra persone che appartengono non solo a generazioni ma anche a nazioni e razze diverse sono le creazioni pop della musica, del cinema, della televisione».
 
La sfida, anche quella implicita nel libro “educativo” di D’Avenia – professore di liceo classico molto appassionato al suo lavoro – è questa, fra melassa pop e cultura. Perché c’è differenza fra una canzone o un jingle e una poesia. Il problema è piuttosto se le ragioni della Vita Nuova di Dante e dell’attualizzazione della poesia e della bellezza riescono davvero a imporsi per questa via, oppure se riaffondano nell’anonimato, nel kitsch e nella corta durata.
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