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Scuole di scrittura creativa: intervista a Giulio Leoni - scrittore e docente

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Di Morgan Palmas

Perché una persona potrebbe o dovrebbe imparare tecniche di scrittura creativa?

Bella domanda. Appunto, perché dovrebbe? Come per la musica o le belle arti, non c’è alcun bisogno di conoscere le tecniche di scrittura, a meno che non si desideri in qualche modo poi utilizzarle per qualche fine. Che non deve necessariamente essere quello del romanzo: anzi, soprattutto per i corsi tenuti in ambito accademico come il mio, lo scopo è più quello di arricchire il bagaglio di strumenti critici che non quello di dar vita a una propria produzione di testi. Quella semmai sarà un prodotto derivato, che potrà o no esserci in seguito.
D’altro canto, se si opera in un determinato campo, è necessario conoscerne gli elementi essenziali: sarebbe difficile immaginare un restauratore che non sia pratico di tecniche pittoriche, o un accordatore che non sappia eseguire una scala a due mani.
Io credo che occorra però sgombrare il campo da un equivoco: che le tecniche di scrittura siano una sorta di ricettario da applicarsi quanto basta, come in cucina. Questo è un mito, alimentato non a caso da un certo pragmatismo di origine americana: è in quell’area che sono nate appunto le scuole di scrittura, arrivate solo molto dopo anche da noi. Nella cultura europea esistevano fino agli inizi del Novecento le scuole di retorica, ma avevano uno scopo diverso: affinare i modi espressivi in modo da renderli il più possibile efficaci e consoni al gusto letterario dell’epoca. Entrambe vivono però lo stesso limite, l’essere un’esercitazione sull’esistente più che sul futuro. Anche il termine “tecniche” è abbastanza improprio, perché sembra alludere all’idea che ci siano modi giusti e sbagliati di affrontare un determinato argomento. In realtà esistono soltanto stili, idioletti di questo o quell’autore, che pro tempore colpiscono l’immaginazione del lettore e si accreditano per un po’ come “norma” dello scrivere. È bene che lo scrittore, in atto o potenziale, li conosca, ma niente di più. La vera scuola dello scrittore resta la bottega, come è sempre stato. Leggendo, e molto, si finisce con l’identificare un piccolo gruppo di scrittori che per qualche motivo ci sembrano realizzare quel tipo di espressione che anche noi vorremmo raggiungere. Inizialmente ci si mette sulla loro stessa strada poi, più o meno velocemente in ragione dell’estro e delle capacità, cominciano a emergere i nostri tratti individuali, fino alla formulazione di uno stile personale. È questa alla fine la migliore scuola di scrittura, lo studio della maniera degli altri.
Uno dei testi che uso nelle lezioni è On writing di King. È gradevole, ben scritto e pieno di utili consigli per gli studenti. Ma, come raccomando sempre, occorre guardarsi bene dall’applicarlo alla lettera. Nella migliore delle ipotesi si finisce per scrivere come King, divenendo uno dei tanti suoi inutili cloni. E allora, se si vuole scrivere come qualcun altro, perché non scegliersi Mann, o Musil? Stesso discorso per le regole di Field nel campo della sceneggiatura: ineccepibili, e infatti il 99,99% dei film americani le applicano senza esitazione, con risultati sempre dignitosi. Però seguendole si realizza nel migliore dei casi Il silenzio degli innocenti, non 8 e mezzo o il Settimo sigillo. Dipende da quello che si vuole.

Quanti suoi allievi sono riusciti poi a pubblicare una loro opera?

Che io sappia un paio. In compenso quasi tutti si sono laureati brillantemente, e molti hanno trovato lavoro nel mondo dell’editoria e attività collegate o nell’insegnamento. Non dispero, magari tra qualche anno, di scoprirne qualche altro in libreria. Ma la domanda che dovresti porre è: quanti suoi allievi hanno poi “scritto” davvero un romanzo? E la risposta è: pochissimi. Perché scrivere in realtà è un lavoro lungo e faticoso, al di là delle apparenze e della mitologia hollywoodiana sullo scrittore bello, un po’ alcolizzato e con la vita piena di donne e di avventure. Sul Romanzo ipotizza come necessario un impegno di almeno cento giorni. È un’ipotesi attendibile, che però vale per un professionista consumato. In realtà ci vuole molto di più, specie per un giovane. E nella vita di un giovane cento giorni sono uno spazio immenso, se deve essere trascorso nella totale immersione nel lavoro, e ben pochi riescono a farlo.

Crede che per pubblicare con una grande casa editrice conti più il merito o la “conoscenza” di “qualcuno”? Quali percentuali fra le due?

Anche questa è una bella domanda. Però è come chiedersi: per esordire alla Scala è più utile avere una voce angelica o conoscere il direttore del teatro? Entrambe le cose è la condizione ottimale, ovvio. Dovendo però scegliere direi di puntare sulla voce. Andare per raccomandazioni ti potrà pure portare sul palco, ma poi arrivano i fischi. Le case editrici vere –quelle che pagano gli autori e non si fanno pagare da loro- grandi o piccole sono dei complessi industriali, e operano esattamente come tutte le altre industrie: ai curatori di collana viene affidato un budget, e in sede di bilancio devono rendere conto dei risultati ottenuti in termini di vendite. Considerando che spesso essi non sono dei dipendenti, ma dei collaboratori a contratto, un paio di bilanci in rosso può significare la rimozione dall’incarico. Ne consegue che la possibilità di elargire favori a parenti e amici, anche volendo, si muove su un binario molto ristretto. Di contro, perché un editor dovrebbe farsi sfuggire il prossimo Ken Follett, anche se al momento sconosciuto? Aver edito il Codice Da Vinci ha assicurato alla Random House profitti per anni, e a Stephen Rubin, che se ne è occupato, una brillante carriera. Vi avrebbe rinunciato per far posto a un amico, ancorché molto caro? Ne dubito: una raccomandazione ti può far assumere come stagionale alle Poste, non nel reparto corse della Ferrari.
Gli editori insomma non sono stupidi, se hai scritto qualcosa che vale non hanno alcun interesse a rifiutarlo. Ma allora perché il mio capolavoro rimane inedito, quando trovo in libreria romanzi del tutto insignificanti? La risposta, novantanove volte su cento, è che non è un capolavoro. Magari è semplicemente un buon libro, che però non toglie o aggiunge nulla alla media di ciò che già esiste. E quindi si trova incolonnato con gli altri come in una fila sull’autostrada all’ora di punta. Prima o poi arriverà anche lui al casello, nel senso che sarà pubblicato: se si insiste pazientemente non è poi così difficile, magari con un editore diverso da quello che si aveva in mente. Ma esiste anche il centesimo caso, il capolavoro misconosciuto? Esiste eccome: Proust e Joyce furono rifiutati per anni, Il dottor Zivago uscì quasi per caso. Anche King e Follett hanno stentato parecchio agli inizi, come quasi tutti. Normalmente il primo libro pubblicato è il terzo, quarto ad essere scritto: possono passare anni tra il lavoro eseguito e la sua pubblicazione, e questa dilazione diventa drammatica in un tempo concitato come il nostro, tutto schiacciato sul presente assoluto.

Se crede nel merito, quali sono le sue azioni quotidiane per favorirlo?

Le stesse di un qualunque lettore: se incontro un libro che mi affascina ne parlo bene con quelli che conosco e invito alla sua lettura. Se si presta lo cito nelle lezioni, lo utilizzo come esempio nelle analisi e lo impongo tra i testi di programma. Se me lo chiede l’autore lo presento con piacere (a Roma e dintorni, ovvio!).
Non mi occupo invece di recensioni: quello del recensore è un mestiere a tempo pieno, se lo si vuole svolgere correttamente, e non è compatibile con le cose che faccio.

Che cosa pensa delle scuole di scrittura creativa italiane se riflette in termini di qualità?

Per quello che so ne esistono diverse più che dignitose. Alcune nascono dall’iniziativa individuale di singoli addetti ai lavori, altre sono il frutto della collaborazione a volte di decine di persone, ma in genere tutte offrono elementi utili per il futuro eventuale mestiere. Purché però le si affronti nella giusta ottica: una scuola di scultura può insegnarti come scalpellare un blocco di marmo senza spaccarlo, o come realizzare una fusione a cera persa senza crepare lo stampo. Ma nessuna scuola al mondo è in grado di farti realizzare il David o il Perseo. Così una scuola di scrittura può insegnarti come e dove trovare le informazioni necessarie per sviluppare un romanzo storico, ma non certo come scrivere il Nome della rosa. Affrontate in quest’ottica le scuole sono molto utili ma, ripeto, chiunque abbia letto un po’ dovrebbe essere in grado da solo di estrapolare i meccanismi di fondo che governano la narrazione, ed essere in grado di applicarli.

Ritiene che blog come Sul Romanzo possano essere utili in tale senso e quali sono i rischi all’orizzonte per le proposte on line?

Sul Romanzo è un ottimo luogo di riflessione sulla materia, soprattutto per il senso della misura e la cautela che contraddistinguono i suoi curatori. Il tread Scrivere un romanzo in 100 giorni è pieno di osservazioni e spunti preziosi, soprattutto per l’insistenza, mai troppo sottolineata, che scrivere è anzitutto un lavoro, con tutti gli affanni e le pesantezze di ogni lavoro, e soltanto dopo, e in misura marginale, gratificazione dell’io ed eventualmente anche qualche soddisfazione economica. Tra l’altro molto modesta: se dividi il ritorno medio di un romanzo per le ore impegnate a scriverlo avresti una sgradevole sorpresa.
Quanto alle proposte on line, se intendi le offerte di stampa on demand o quei siti che creano una biblioteca di testi autogestiti, mi sembrano molto simili alla vecchia copisteria sotto casa in versione elettronica. Possono essere utili per testi specialistici o molto particolari che difficilmente troverebbero posto in una collana su carta. Ma per la narrativa tradizionale si tratta quasi sempre di scorciatoie che non portano da nessuna parte. Ci sono, è vero, degli esempi di editoria on line che, accoppiati a un abile lavoro di marketing virale, sono riusciti a proiettare qualche autore nell’olimpo dell’editoria su carta: ma si tratta di esempi sporadici, che presuppongono anni di lavoro in rete, frequentazione assidua di gruppi e social network, presenzialismo continuo a convegni, incontri e dibattiti: insomma un enorme investimento di tempo che non sempre, anzi quasi mai, ripaga.
Altro discorso riguarda l’editoria elettronica, come si va strutturando con i grandi gruppi come Amazon, attraverso l’introduzione dei così detti libri elettronici: questa diverrà nell’arco di alcuni anni il maggior canale di distribuzione dei testi. Non è ancora avvenuto essenzialmente per motivi economici, non tecnici: i grandi editori hanno fatto cospicui investimenti in megalibrerie e canali distributivi, e devono prima ammortizzare gli investimenti. Ma il futuro è quello, di certo. Naturalmente questa transizione avrà le sue luci e ombre: diminuendo drasticamente i costi di stampa sarà molto più facile accedere alla pubblicazione, dall’altro sarà sempre più difficile arrivare ai lettori, a meno che non si sia agganciati a qualche editore elettronico potente, e quindi siamo da capo.

Escluso lei, ci indichi qualche nome di insegnante di scrittura creativa in Italia che reputi professionale e originale.

Non ho conoscenza diretta di nessuno, per cui non sarebbe giusto esprimere giudizi di merito. Vorrei invece suggerire due tre libri, secondo me davvero utili: Dramatica, di Phillips e Huntley, Best seller by design, di Lynda King e The hero with a thousand faces di Campbell. Sono tre testi molto diversi, ma ognuno a modo suo una miniera di informazioni e riflessioni utili.

Quale consiglio darebbe a una persona che sta decidendo come valutare la serietà di un corso di scrittura creativa?

Il primo consiglio è di andare in uno di questi grandi megastore, e aggirarsi per un po’ tra gli scaffali. Osservare le cataste di libri, sfogliarne qualcuno, magari prendersi un caffè al bar interno, tornare a girare tra i libri. E poi chiedersi: davvero ho in mente qualcosa che non c’è già qui dentro? Qualcosa che meriti di essere aggiunta a quest’enorme deposito di carta, la cui gran parte è destinata al macero? Qualcosa che mi urge dentro con tale forza da non poterne reprimere in alcun modo l’uscita? E che per farla esistere mi costerà fatica e tempo, con scarse possibilità di successo? In altri termini, sono davvero una specie di Colombo, disposto ad avventurarmi in un oceano sconosciuto, da cui corro il rischio di non tornare più? Solo se la risposta è positiva, allora vale la pena di procedere al passo successivo. E una buona scuola di scrittura può senz’altro aiutare: non a scrivere un capolavoro, per quello sono necessarie altre cose, ma almeno a evitare qualcuno degli errori più grossolani in cui può incorrere chi comincia.
Come per ogni altra materia, la scuola serve essenzialmente ad apprendere più rapidamente una serie di elementi che si possono benissimo scoprire da soli: solo che serve molto più tempo. Tutti i “trucchi” del mestiere sono condensati in non più di una decina di romanzi: ma quali? Un buon insegnante dovrebbe conoscerli, smontarteli sotto il naso, farti vedere gli ingranaggi che li mandano avanti, spiegartene l’equilibrio interno e insegnarti a evitare il troppo e il troppo poco. Fatto questo, il resto dipende da te.
Andando al pratico, io consiglierei di evitare corsi tenuti da scrittori, meglio scegliere quelli tenuti da agenti letterari e meglio ancora da editor di case editrici. Per un motivo semplice: lo scrittore mediocre tenderà ineluttabilmente a proporre come modello se stesso. Può anche essere utile in seguito, ma all’inizio è meglio essere introdotti a una pluralità di metodi e di stili, anche conflittuali e contraddittori tra loro. Questo all’inizio può ingenerare confusione (come si presenta un personaggio in un romanzo d’azione? Come Dumas, o come Hammett?), ma superata questa fase ciò che si è appreso è come una faretra di frecce, più è ricca migliori sono le possibilità di colpire il proprio bersaglio.
Quanto ai grandi, nessuno di loro ha mai pensato di insegnare a scrivere. E questo per un ottimo motivo: lo scrittore vero vede la scrittura come un orizzonte inattingibile, frutto di una ricerca continua che elude lui per primo. Il grande scrittore passa la vita a imparare, e non raggiunge mai quella condizione di pacificazione che consentirebbe di trasmettere ad altri un metodo quel che sia. Naturalmente molti grandi hanno espresso, taluni anche in forme sistematiche, riflessioni sulla loro poetica: ma sempre in una visione problematica. Le Lezioni americane di Calvino per esempio contengono importantissimi elementi di riflessione sul mestiere dello scrittore, così come tanti spunti di Eco. Ma si tratta soprattutto di stimoli, mai di una lezione organica. A nessun vero artista verrebbe mai in mente di dire: fate così. Perché nemmeno lui sa esattamente quale sia il modo giusto di fare, ne è anzi lui per primo alla continua ricerca. I grandi vanno studiati di nascosto e saccheggiati.


Il sito di Giulio Leoni

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