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Gregory Corso: riflessione sulla sua poesia

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Di Claudia Verardi

La scorsa estate, alla Mostra del Cinema di Venezia, ho visto un film, Poeti (di Toni D’Angelo), una splendida ricerca sulla poesia della Beat Generation americana, ma non solo. Questo film ha riacceso in me la voglia di ritornare a leggere poesia, che – chissà per quale arcano motivo – avevo tralasciato per dedicarmi alla narrativa. Così, mi sono immersa nelle pagine dei poeti che avevo tanto amato all’Università, da W.S. Burroughs a Ginsberg, da Ferlinghetti a Gregory Corso.

Quest’ultimo, newyorkese di origine italiana (nato da genitori diciottenni) ebbe una giovinezza molto difficile. Conobbe il riformatorio, il carcere e la clinica psichiatrica. Si scoprì poeta nelle biblioteche delle prigioni in cui fu detenuto, soprattutto leggendo P.B. Shelley, che lo illuminò e con il quale ha davvero molto in comune. Allen Ginsberg lo introdusse nell’ambiente letterario dei beatniks e, da allora, Corso divenne parte di una poetica incentrata sul rifiuto dei valori borghesi e sull’alienazione dell’uomo nella società, oltre che sulla ricerca della verità nei piccoli gesti della vita quotidiana. Corso si genufletteva davanti alla vita semplice e normale e ai suoi interrogativi cosmici che non trovano quasi mai risposta. Tante, le opere, e belle da rimanere senza fiato. Tra le altre, Benzina (1958), The Bomb (1958, accusa violenta contro gli armamenti nucleari), Il buon compleanno della morte (1960) e Sentimenti Elegiaci Americani (1970). Gregory Corso girò molto per il mondo e amò in maniera viscerale Parigi e l’Italia, in particolare Roma. È proprio grazie a quell’amore che oggi, infatti, riposa a Roma (accanto alla tomba di Shelley), nel cimitero degli inglesi, quello acattolico di Testaccio dove, tra l’altro, è sepolto anche John Keats.

La cosa che mi colpisce di più di quest’artista unico e geniale è la forza di spirito e la profondità che metteva nella ribellione al sordido conformismo che, poi, è il cuore di tutta la poetica beat. Il suo è un poetare di innovazione linguistica, un’espressione artistica che contamina cultura “alta” e saggezza popolare, passato e presente, esaltazione e calunnia. E non solo. Anche la sua apparente incapacità di prendersi cura di sé e della sua vita, della sua anima e della sua poesia è davvero molto affascinante. Al contrario, Corso era persona di grande resistenza e infinita sensibilità. In particolare, “sentiva” molto la sofferenza, propria e altrui, e questo è un elemento che me lo rende molto caro, me lo fa sentire vicino. La sua poesia è piena di richiami, di posti, di visi, di manifestazioni dell’animo umano, oltre che di riferimenti al mondo classico, all’Egitto, al Medioevo e alla grande letteratura romantica dell’Ottocento. Sulla scia di W. H. Auden, i suoi sono versi forti e taglienti come il vetro.

La bellissima raccolta di poesie di Mindfield (Campo Mentale), con la formidabile traduzione di Massimo Bacigalupo, è un’altra espressione di grande poesia, intesa come rivelazione di una forza interiore e di una delicatezza ineguagliabili. Un ragazzo stravagante, dunque, capace di scrivere versi epici e arguti, sobri ma violenti. Una produzione esorbitante, forse quasi una necessità fisica di vedere sulla carta le sensazioni più profonde e nascoste. Come Dylan Thomas giocava con la forma delle poesie, scrivendo parole raggruppate in cilindri, piramidi e forme serpentine, così anche Corso giocava con la rappresentazione grafica dei vocaboli (scrisse The Bomb a forma di fungo atomico, per esempio) e con i disegni, frutto estetico di percezioni della mente, di porte aperte, come ben rappresentarono in musica, in quegli anni, i Doors.

Fernanda Pivano lo definì “insolente al di là del sopportabile, strafottente, imprevedibile e dotato della rara capacità di non dire mai una sciocchezza.”

La poesia di Gregory Corso fu soprattutto poesia di idee, oltre che di sentimenti. Idee rappresentate e descritte con tenacia e violenza narrativa, con immagini evocative e potenza letteraria. Tutto questo lo rende simile a geni della levatura di W.B. Yeats, Kerouac, T.S. Eliot e anche Bob Dylan. Lo immagino come un artigiano sociale al servizio della poesia, un artista libero che conosce gli anfratti più scuri e li ritrae con autorevolezza.
Leggiamo Stelle, per sentire la purezza meravigliosa dei versi.

Centrale buco della creazione
Botola di fuga dalla luce sovrastante
Non creature dello spazio balzano
Fossili vividi incastonati nella notte

Certe sue liriche mi fanno pensare alla forza che hanno oggi altre espressioni, la musica rap, per esempio (perdonatemi il paragone forse un po’ azzardato). I rapper di oggi fanno battaglie in versi proprio come li facevano i poeti beat, usando quella modalità di espressione per affrontare temi anche delicati, come la povertà sociale e il razzismo. Sì, amo Gregory Corso e il suo bellissimo richiamo, che assomiglia a quello delle sirene. Come si fa a non amare uno che ha passato gli ultimi anni della sua vita a declamare poesie per la strada, che girava per Campo de’ Fiori, piazza e luogo magico di Roma, come un bardo d’altri tempi? Originale, imprevedibile, troppo anche per essere dandy.

La poesia racconta storie di sentimenti, frammenti di solitudine, pezzetti di vita e non è affatto morta, sta solo cambiando forma. Tocca a noi adesso seguirla con amicizia e dedizione perché non ci volti le spalle e fugga via, lontano.

Link a un mio articolo su Poeti, il film di Toni D’Angelo
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