Donne fatali 4.1: una fata nella metropoli e un viaggio nella città-donna
Autore: Michele RueleSab, 23/01/2010 - 13:24
Di Michele Ruele
MELUSINA, UNA FATA NELLA METROPOLI
Melusina sull’altro marciapiede è il titolo di un romanzo sorprendente di Francesco Cipriani. Scritto fra il 1925 e il 1928, rientra nel progetto di Massimo Bontempelli di dar luogo a una larga produzione di romanzi e racconti che portassero al successo editoriale i principi del “realismo magico”: un capitolo del genere fantastico non solo nel Novecento, ma nella intera vicenda del romanzo italiano.
Melusina. È il nome di una fata, di una creatura acquatica dei boschi.
Hanno il passaporto di donne fatali anche orchesse, matrigne, maghe, fate che «hanno riempito, e forse riempiono ancora, di incubi e paure terrificanti le notti dei poveri innocenti bambini ai quali ogni sera venivano propinate per farli addormentare» . (Volpatti, Sul braccio di colei…)
Le fate non sono solo buone: Leanan-shide in Irlanda, Baobhan-sith in Inghilterra, le Fenettes svizzere, le Vily slave: ispirano scrittori e poeti e poi li uccidono, si nutrono di sangue degli uomini che allettano, fulminano chi le vede, nascono dai colori dell’arcobaleno e danzano con gli uomini fino a farli morire stremati. Le “donne di fuora” sono siciliane, le “fade” dei dintorni di Vicenza entrano nelle case e distruggono tutto, le “majanines” della Marmolada hanno capelli lunghi, vivono nell’acqua e sono bellissime, hanno una voce irresistibile e chi le sente resta impietrito, non sente più il caldo e il freddo e si ritrova assiderato; la “serpentina” vive nel bergamasco, chi tenta di ucciderla quand’è sotto forma di serpe muore folgorato. Sono così le fate malvagie della Bella addormentata nel bosco, le matrigne varie delle fiabe da quella di Biancaneve a quella di Cenerentola. E poi le maghe della letteratura sono loro parenti: Circe, Alcina, Armida.
Melusina del romanzo di Cipriani – ma anche in Ritratto di Melusina di Corrado Alvaro – è di quella stirpe, viene da un «Altrove, da un universo parallelo popolato da esseri dalla natura estrema» (P. Galloni, Nostra signora crudele).
«Le Selvatiche, le Aquane della Val Camonica, le Basure della riviera di ponente, le bellissime Diale dell’Engadina dagli occhi luminosi che smarrivano in un delirio d’amore il senno dei giovani che incrociavano i loro sguardi, le spietate Bregostane e le Vivane nelle Dolomite, le Fanciulle del Muschio e le Fate delle Nevi che abitavano le notti alpine, le Uldeune della Resia, tutte avevano una caratteristica comune: erano libere. Gli uomini con i quali si univano erano sempre dei prescelti, mai dei seduttori» (Galloni).
Regine delle Nebbie, Torri di Solitudine, guardiane traditrici che spalancano agli assedianti le porte delle città, fate bianche della Chiara Fontana, Morgana l’incestuosa, la donna serpente, la Dama del Lago, la principessa smarrita che non ha ancora capito come avere cura del Giardino, tutte appaiono sulla terra per la prima e l’ultima volta, sempre vergini, sempre insaziabili.
Melusina porta nel romanzo di Cipriani la dimensione panica e dionisiaca, è il mito che spiega «il sensibile con il sensibile», che costituisce «un modo originale di essere al mondo»(Givone).
Nella metropoli moderna, ce l’ha insegnato Baudelaire, l’esperienza mistica sembra non avere più possibilità di manifestarsi. L’aggirarsi nel labirinto della metropoli è quanto di più artificiale e alienante. Sopravvivono le nostalgie dell’esperienza mistica, della possibilità infinita, del ricongiungimento alla natura.
Un’esperienza vissuta con senso di colpa, mutata in impossibilità, addirittura distrutta o trasformata morbosamente in D’Annunzio, in Pirandello, in Verga, qui si fa proposta positiva per quanto misteriosa e perturbante. Qualcosa di simile ritroviamo nel Savinio di Angelica o la notte di maggio. Melusina è un sogno di naturalezza - «aspirazione romantica di tornare se non alla natura, alla naturalezza» come dice Bontempelli a proposito dell’infanzia.
Cipriani sogna una riappropriazione urbana dell’esperienza totalizzante del dionisiaco – Melusina è nemica della macchina, ma si muove negli ambienti cittadini: strada, teatro di varietà, caffè, marciapiedi sfavillanti di réclame e vetrine, periferie deserte, giardini pubblici.
Si rivede qui la figura di una donna fatale che rimanda alla matrice della Grande Madre, della Natura, della Signora degli animali, potnia thèron della cultura greca, la stessa impronta della Natura di Leopardi.
Il protagonista, Giulio Giovanni, segue l’epifania bionda nelle strade grigie: «Egli camminava seguendo qualcuna tra la folla dei marciapiedi. La seguiva dal principio del pomeriggio, incantato da quel giuoco dilettevole e dolce: la vedeva apparire e disparire ogni tanto nell’arioso disordine dei fuggevoli ombrelli sbandati, si abbandonava senza meta all’ondulare appassionato della sua persona in distanza».
Melusina in un bar: «…un’illusione di colori sovrapposti, e la figura di Melusina si avvicinava a lui, lungo il suo sguardo, sino a combaciare con il suo volto».
«Ella avanzava silenziosamente.
Un viale, un prato, una panchina, un piccolo giardino, un grande giardino.
Prima di lei era il caos, e la panchina era vuota. Ella sedette e volse gli occhi in giro, elargendone il significato… Il Lontanissimo, il Desiderato discendeva in lei nella grazia del primo dono, nell’estasi del primo colloquio. Ella respirava: eucaristia trasparente, comunione di ogni minuto, miracolo per ogni creatura. Ora ella ricambiava il bacio prodigioso. Si diffondeva da lei l’alito denso della sua fresca energia. Ricomponeva nella gioia di donare quello che aveva distrutto nel piacere di prendere».
«Melusina si abbandona con la sua anima innamorata di tutto e amata da tutto».
«Tutto in lei si ama: quando cammina ogni suo movimento è un amplesso furtivo e fuggevole. Se ella se ne accorgesse, non saprebbe più camminare senza arrossire».
Melusina è anche terribile e dionisiaca: trascina le danzatrice del teatro del varietà come menadi: «Le danzatrici fiutavano l’aria, scalpitando, imbizzarrite e ombrose.
Una paura impensata e irragionevole serpeggiò nella vasta penombra, come nell’imminenza di un parto titanico, dello scoppio di una mina, di una rivelazione terribile e clamorosa.
La musica si allargava sempre più, dilatandosi e sbiancando: rimase sospesa su di un guizzo sottilissimo e prolungato che andò man mano svanendo… repentinamente tutti curvarono il capo.
Parve che il luogo crollasse».
È l’irrompere del caos e dell’ebbrezza: «Le sedie capovolte e abbattute come carcerieri sopraffatti si ammassavano in mucchi spinosi, si sollevavano a grappoli, in foggia di trombe marine, di reticolati, di ponti, di barriere. In quell’asprezza di rocce pericolanti si inerpicava fuggendo e guaendo un omino seminudo, inseguito alle calcagna dalle sue lunghe bretelle penzoloni… voci lamentose salmodiavano: - Facci tornare bambini!… E balzavano nude, le donne, sul palcoscenico tumultuante, accolte da rauche grida di gioia e saltavano nella danza rifatte nuove e lucenti».
Melusina scompare inghiottita nella città stessa a bordo di un’automobile misteriosa.
GADDA: VIAGGIO NELLA CITTÀ-DONNA
Ma se restiamo nel torno di anni tra gli ultimi Venti e i Trenta, è in un altro romanzo che troviamo l’allegoria di «una discesa nel regno archetipico delle Madri… attraverso una città-donna, una Roma «posseduta dalle forze virili del fascismo… attraverso una serie di passaggi rituali che portano dal caos della città al mondo della periferia evocato… con precise connotazioni femminili… trasfigurato in regno di Circe» (Marco Bazzocchi): è Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, formidabile macchina mitica di rielaborazione dell’eterno femminino – compreso quello “fatale” – fondata sull’opposizione «vita-morte, eros-thanatos racchiuso nel mistero di Liliana» (Bazzocchi).
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