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Donne fatali 4: antropologie fantastiche e la cocotte di Palazzeschi

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Di Michele Ruele

ANTROPOLOGIE FANTASTICHE

I generi narrativi del fantastico e dell’avventuroso collaborano alla creazione del mito femminile della donna potente, ma non tanto distruttrice quanto affascinante e ambigua salvatrice: come se l’universo maschile potesse liberarsi della propria volontà di potenza e si armonizzasse con le spinte liberatrici del sentimento, della bellezza e della naturalezza. Una bellezza terribile, non occorre ricordarlo.
Non sarà così per le Ligea e Rossana di Edgar Allan Poe? Per la componente femminile (personaggi e sentimenti compresi) in Dracula di Bram Stoker (1897)? Un prototipo della donna potente è in She di sir Henry Rider Haggard (1887, tradotto in italiano oltre che con il letterale Lei anche con il titolo La donna eterna). Per qualche verso simile a queste donne fantastiche e abbastanza melodrammatiche, ma capace di armonizzare civiltà e natura, è la Jane creata da Edgar Rice Borroughs in Tarzan delle scimmie (1912: la lunga saga di questo grande scrittore si volge verso i territori del fantastico ed è popolata da regine e maghe non lontane da quelle di Haggard); qualcosa di simile con Marianna e Sandokan nel Salgari delle Tigri di Mompracem (1901). Questa coppia avventuroso-fantastica continua nel cinema e nei fumetti, nelle canzoni e nella varietà dell’immaginario popolare (dai calendari alle figurine ai barattoli di latta): ne dà ampia trattazione Umberto Eco in La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani, 2004).

PALAZZESCHI: INTERROGATORIO DELLA CONTESSA MARIA – L’AMBIGUITÀ DELLA COCOTTE

Per qualche tempo vicino al Futurismo, non più al tempo della redazione del romanzo Interrogatorio della contessa Maria, scritto a metà degli anni Venti e pubblicato solo nel 1988, Aldo Palazzeschi ha tratteggiato in quelle pagine il ritratto della donna fatale vittoriosa e vitale – eppure schiava delle proprie passioni, questo va sottolineato – che afferma con gioia il libero esplicarsi della sua gloria di conquistatrice. L’interlocutore della contessa è un borghese fra divertito e timoroso.
La contessa Maria è una nobile decaduta, scacciata dalla sua famiglia, vive ai bordi della società mantenendo intatto il proprio orgoglio.
Lo sguardo dell’indagatore è curioso, divertito, intenerito. Parodia surreale, ironia grottesca, carnevalizzazione: la femme fatale qui è autonoma, non più distorta e non dipende dal suo creatore maschile, questa volta dunque davvero provocatoria, davvero rivoluzionaria. È anche parodia e modello alternativo alle donne dannunziane e marinettiane.

«Non vi fu prostituta, adultera, ruffiana, ladra, megera sulla terra, per la quale ai miei orecchi non giungesse un accento di pietà… Il disprezzo, il disgusto unanimi ch’ella provocava… mi indussero ad osservarla con attenzione».

Nella sua analisi della contessa Maria, il protagonista si fa controparte, assume il ruolo di «pubblico ministero della borghese mentalità e della sua morale»; lei oltrepassava i suoi giudizi con «crudele sincerità e sprezzante ironia»; anche lui, per il solo fatto di frequentarla, diviene borderline, gli altri «disapprovarono così decisamente il mio contegno fino a divenirmi ostili», così il protagonista condivide con lei per qualche tempo «l’ultimo gradino della società dov’essi così arbitrariamente e con tanta sicurezza l’avevano situata».

Gli altri usavano «gli aurei paragoni ai nomi fatidici di Messalina e della Regina Giovanna di Napoli, e insieme a quello di Caterina di Russia», lui invece afferma che «la Contessa Maria non era vecchia prima di tutto, non aveva che trentacinque anni quando la conobbi, e che se proprio non era bella, era di regolari fattezze, animate da una vivacità ed interiore contentezza quasi infantile che non stonavano mai colla sua femminilità piena matura e vissuta, né volevano occultarla, era di elegante media corporatura, con movimenti piacevolissimi di signorile spigliatezza, vestiva con semplicità squisita concedendosi spesso un leggero tono così garbatamente mascolino ch’era in fondo il suo più bel capriccio femminile…».

Va ricordato che una nota dominante nell’immagine della femme fatale è quest’ambiguità di genere: i tratti maschili appaiono come «le spoglie del nemico assoggettato» e «il corpo femminile diventa un complicato e terribile congegno di feticci […] La condotta della donna fatale desta sempre grandi perplessità… le sue bontà e le sue malvagità sono difficilmente riconducibili alle normali categorie morali» e alla fine qualcosa sempre sfugge al giudizio (Scaraffia).
Niente a che fare, per la contessa Maria, con le estenuazioni letterarie, con i libri: «Letterato! Letterato!… ma la vita è azione, figliolo caro, e starsene col sedere sulla seggiola non è azione…»; «“Ma allora per voi… tutta l’opera dei profeti, santi, filosofi, sognatori, artisti, poeti, è di nessun conforto, di nessun piacere, di nessuna guida e utilità?” – “Cancrena”».
Il regno della Contessa Maria è il caffè; lei se ne sta inattiva, fuma, improvvisamente si alza e se ne va. Per le strade è accompagnata dai «tipi più curiosi e diversi che mai si potessero immaginare. Ufficiali, sottufficiali, soldati, studenti, un vetturino colla tuba in testa, un meccanico colla tuta, un garzone di macellaio, un pompiere, uno chauffeur, una guardia comunale, un carabiniere, un finanziere, un ferroviere…».

«“Voi, contessa, dovete aver avuto certamente… molti amanti”,“Tutti quelli che mi piacquero, ragazzo mio, quando a loro io piacqui…».
«Voi avete dell’amore un concetto che non è il mio, non ci possiamo intendere sul valore della parola. L’amore per voi è il principio e regolare sviluppo di una malattia, esso sboccia generalmente nel suicidio nel digiuno nell’ospedale o nel manicomio, io te l’ho detto, non sono mai stata malata, e l’amore per me sboccia in un buon pranzo, o in un buon sonno… Il mio amore è vero, è sano, giusto ed onesto, ma né tu né gli altri potete comprendere ed apprezzare».
Gli amanti della contessa furono «“…se non prendo abbagli, quattromila poco su poco giù”, “Mi manca il ragioniere, l’ho trovato. Letteratura, burocrazia, amministrazione, dì un po’: spiritismo, ne fai?”, “Quattromila uomini, signora contessa, è il numero del vostro pollaio”, “Bravo!”».
«…“ma ora ti dirò, guardami bene, dei duecento uomini scelti da me, da me, tu mi capisci, cinquanta appena sono buoni e dieci, forse, ottimi”».
«Se io andassi di porta in porta a domandar pietà la società me ne darebbe a staia, ma gli è che io non ho punto bisogno della sua mercé. Io detesto la prostituta, ella calpesta, mortifica, mentisce, deride il dono più alto che ci venne dato..».
«“La donna è la menzogna, io sono la verità. Ti pare che gli uomini mi possano amare? Essi sono la mia preda, io non diventerò mai la loro”.
Un giorno le dissi: “pagana!”, ed ella mi rispose: “bischero!”, “Pagana… e felice”, “Bischero… e infelice”. E un altro giorno le dissi: “Come la farfalla, come la farfalla!”, ella mi rispose: “Come il grullo che c’hai nel mezzo della zucca”».

Palazzeschi travolge le strutture della letteratura, della famiglia, di tutto l’ipocrita universo maschile, sepolto sotto il fuoco d’artificio dell’ironia e dell’umorismo.
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