Intervista a Giorgio Morale
Autore: Morgan PalmasVen, 11/12/2009 - 11:14
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Ho cominciato a scrivere poco dopo aver imparato, anche se vedo la scrittura come l’esito di una lunga preparazione: all’inizio ci sono le giornate lunghe dell’infanzia e un appuntamento che si ripete, l’attesa di una voce altra da me che racconta; poi la voce altra nasce da dentro di me e sono io che l’alimento, fino a che diventa scrittura.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
La scrittura, come la condizione umana, è plurale. E mi pare che non solo ogni scrittore, ma anche ogni libro, per ogni scrittore, sia diverso dall’altro, che ognuno abbia una storia diversa, per genesi e modalità di composizione.
Penso che sia l’istinto creativo che la razionalità consapevole siano delle astrazioni. Perché io scriva, il mio punto di partenza è un dato di verità; un forte vissuto. Può essere un sentimento, un’immagine o una storia, un’esperienza significativa: se ne scrivo è perché diventa un tema che mi coinvolge totalmente e finisce per abitarmi. Allora tutta la realtà riceve luce da quel “tema”, tutto quello che vivo viene assunto in esso. E intanto che cresce, il tema determina sempre più chiaramente uno stato d’animo, mentre fili diversi si organizzano in una storia: mi metto a scrivere quando non posso farne a meno, quando le parole premono per venire fuori, avendo trovato la forma che le dica. È lo stesso senso di necessità che cerco come lettore. D’altra parte, come diceva Hafez, “A quel verbo m’inchino che grande una fiamma seconda, / non a quelle parole che gettano acqua sul fuoco”.
Poi arriva il momento di organizzare il materiale in una struttura, decidere come far cominciare e finire il libro, rivedere il linguaggio, e allora occorre anche capacità tecnica e conoscenza della lingua e della letteratura, della sua storia e dei suoi strumenti. Non so però se si possa parlare di “razionalità consapevole”, in questa attività razionalità e sensibilità non sono mai disgiunte, anzi la sensibilità e l’immaginazione sono una componente del mestiere e strettamente impastate con la tecnica, le due cose si sostengono a vicenda. Mi viene in mente quello che dice Franco Loi del suo far poesia: vado in giro, guardo, sento, parlo fra me e me e mi accorgo che penso in endecasillabi.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Non vivo dell’attività di scrittore, perciò tutte le mattine sono al lavoro e non ho le 4 o 5 o 6 ore al giorno di scrittura, come dichiarano alcuni scrittori. Non so come sarebbe, se anch’io potessi permettermelo, a pensarci oggi le 6 ore quotidiane mi sembrano di una meccanicità che non s’addice alla mia idea e pratica di scrittura. Ma ognuno impara qualcosa dalla condizione che si trova a vivere e teorizza a partire da essa. Il mio metodo oggi è dettato dall’urgenza, dal bisogno di restituire un’esperienza della cui trasmissione mi reputo responsabile. Quando è necessario scrivo per strada, in piedi, sul tram, anche su un foglio per appunti o su un biglietto, e tutto sommato mi pare una buona cosa, che la scrittura prenda aria, che nasca all’aria aperta. Sono appunti preziosi, che nel testo finale costituiranno dei validi dati di realtà. Al momento della scrittura definitiva però occorre creare le condizioni affinché quanto maturato possa essere trasferito sulla pagina, e verificare che la trascrizione sia stata fedele, e questo richiede avere un buon tempo davanti a me. A lavoro finito, leggo il testo nelle situazioni più diverse, anche le più disturbanti. Se il testo regge alla lettura in queste condizioni, è accettabile.
Allo stesso modo non mi sono mai preoccupato di quanto scrivere, non mi pongo l’obiettivo di un numero di pagine da produrre quotidianamente né di raggiungere un certo numero di pagine per considerare il libro concluso.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Io non ho bisogno di molto, non sono e non desidero essere lo “scrittore”, la “torre d’avorio” e lo status di “professionista” non fanno per me, anzi mi iscrivo volentieri tra i dilettanti. Sono una persona che vive e lavora e che, quando ha qualcosa da dire e può dirlo, scrive: perché scrivendo ho la possibilità di dire e di fare più mia la mia esperienza della vita e del mondo, completo me stesso e ho qualcosa da dare agli altri. Certo, c’è il lavoro, ci sono gli impegni quotidiani, mentre scrivere, soprattutto in alcune fasi, come dicevo prima, richiede raccoglimento e tempi lunghi: e mi piace scrivere in un luogo in cui mi senta a mio agio, in silenzio. Al contempo mi va bene il primum vivere, amo una scrittura che nasca dalla vita e dall’esperienza, che sia strettamente intrecciata con esse e che perciò finisca con l’essere essa stessa un’esperienza importante; e mi va bene anche l’attesa: dover rimandare il momento della scrittura accresce il desiderio di scrivere, mentre il tema si chiarisce, le scene si compongono e le frasi si formano.
Perciò per scrivere mi basta carta e penna. Scrivere con la penna mi dà la sensazione fisica di un travaso da me alla pagina e mi sembra che mi dia maggiormente la possibilità di seguire il corso dell’immaginazione, dei pensieri e dei sentimenti nel loro formarsi: per me è il modo di scrivere più flessibile che esista. Solo in un secondo tempo trascrivo in word. L’uso del computer permette di verificare immediatamente soluzioni diverse, montare e smontare dei brani e intrecciarli variamente; permette anche di garantire una maggiore uniformità di tono e di lessico, nonché di provare che effetto fa vedere la scrittura in un formato simile a quello “stampato”. Se ho bisogno però di schierare davanti a me pagine e capitoli, per avere una visione contemporanea di parti diverse di un testo, questo il computer non lo permette e torna di nuovo utile la carta.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
La lettura di altri scrittori è imprescindibile, se scrivo è perché ho letto e amato la lettura e ho visto a ogni lettura un accrescimento della mia esperienza. Alterno sempre letture di scrittori del passato e di scrittori d’oggi. Gli scrittori d’oggi comunicano il sentire e il ritmo del presente, ma veramente presente è ciò che è sempre presente, altrimenti la scrittura è solo cronaca, cosa che passa e invecchia presto. Quello che più conta è la qualità e lo spessore della scrittura: occorre che io leggendo ricavi non mere informazioni, ma una moltiplicazione di senso e di possibilità che mi riguardi da vicino, indipendentemente dal fatto che l’opera sia del passato o del presente.
Oggi oltre ai nostri classici ci sono da conoscere anche le opere di letterature non occidentali, in particolare sono molto ricche e in gran parte da scoprire per noi le letterature araba, indiana, giapponese e cinese.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Non ho idee particolari al riguardo. Io ho cominciato a scrivere ad Avola e immagino che, se non fossi venuto a Milano, avrei continuato a scrivere lo stesso, anche se certamente cose diverse da quelle che poi ho scritto. È vero che la città permette di avere maggiori contatti; senza che ciò garantisca però di avere accesso all’industria culturale. I miei contatti comunque si limitano a un paio di amici, che sono preziosi per la vita prima che per lo scambio letterario. Allo stesso tempo l’incidenza di Internet nel collegare a prescindere dalla localizzazione geografica mi pare crescente, anche se non ancora determinante.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Non posso dirlo, perché non so come sarebbe stata la mia vita senza scrittura, dato che, anche se poco, ho sempre scritto. Per me scrivere è un’attività del tutto gratuita, ma costitutiva dell’identità personale. Lo diceva anche Marx: “Il Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura”. Il contatto con il mercato viene dopo, anche se, vivendo il mio tempo e leggendo ciò che si scrive e si pubblica oggi, non posso non esserne in qualche modo condizionato. Posso dire che scrivere mi pare uno spazio di libertà personale per tutti, uno spazio di riflessione e di dialogo intimo e meditato con se stessi e con gli altri. Anche nei tempi più bui, quando non può che dire la disperazione ed è l’unica forma di resistenza possibile, la scrittura mi pare contenere un germe di fiducia nell’uomo e di speranza nel futuro.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie a lei.
Giorgio Morale è nato ad Avola (Siracusa) nel 1954 e dal 1972 risiede a Milano, dove si è laureato in Filosofia e ha lavorato nel giornalismo, nel teatro e nella promozione culturale. Dal 1989 insegna Lettere negli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con “Paulu Piulu” (Manni editori). Sempre per Manni, nel 2009 ha pubblicato “Acasadidio“. Scrive su “Bottega di Lettura”. Fa parte del comitato di lettura della casa editrice on line vibrisselibri. È redattore del litblog La poesia e lo spirito.
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