Donne fatali 3: l'evoluzione e le ambiguità del mito fra '800 e '900
Autore: Michele RueleMar, 22/12/2009 - 11:26
Di Michele Ruele
D’ANNUNZIO E FOGAZZARO
C’è affollamento di donne fatali nei romanzi di Gabriele D’Annunzio. Questo tipo di superdonna, che in realtà si adatta assai spesso al modello maschile, è molto conosciuta. Tra l’altro, è D’Annunzio il primo a «portare tra gli italiani la Bisanzio anglo-francese della fin del secolo» (Mario Praz).
Reincarnazione di Elena e Saffo è la Pamphila del Poema paradisiaco (ricostruita pari pari sulla Héléne della Tentazione di sant’Antonio di Flaubert, «perenne sua fonte d’ispirazione» come chiarì Praz); Elena Muti nel Piacere (1881); Ippolita Sanzio nel Trionfo della morte (1894) - «”La crudeltà è latente in fondo al suo amore” egli pensò», talvolta è agli occhi di Giorgio Aurispa dotata di «un tal grado di intensità simbolica nel significare il principio del fascino femminino eterno», talvolta è una bruta macchina d’amore, «la romana pallida e vorace, insuperabile nell’arte di fiaccar le reni ai maschi» -; Foscarina (Eleonora Duse) nel Fuoco (1900); Pantea nel Sogno d’un Tramonto d’autunno (1898); Gioconda nell’omonimo dramma (1898); la Comnèna de La gloria (1899) - «Secoli di fasto, di perfidia e di rapina s’inabissavano in te, sangue di traditori e d’usurpatori, razza micidiale. Ovunque tu toccassi, ovunque aderisse la tua carne d’inferno, pareva dovesse farsi una piaga senza rimedio. Eri il danno, il supplizio, la perdizione certa…»; Teresa Raffo nell’Innocente; la Basiliola della Nave (1908); Isabella Inghirami in Forse che sì forse che no (1910).
Rifacciamoci alla definizione che del sistema della “superfemmina” in D’Annunzio ha dato Mario Praz: «… tutto il ben noto quadro delle manifestazioni sadiche si trova documentato nell’opera (di D’Annunzio), dall’incesto e dal sacrilegio, fino all’apologia del crimine come principio fondamentale dell’elevazione… ma D’Annunzio è inferiore al Sade. È vero che anche gli scellerati del Sade si vantavano di sentirsi divini (“Nous sommes de dieux!”), ma senza possibilità d’equivoco circa la loro psicopatia».
Una donna fatale che sfugge alle intenzioni del suo stesso autore è Marina Crusnelli in Malombra di Antonio Fogazzaro (1881). Quest’ultimo intendeva usare la figura della donna diabolica per un intento morale ed edificatorio di stampo cattolico: «[…] voglio che riesca un libro sano, corroborante […] voglio in una parola che il talento confidatomi da Dio renda quel frutto che piace a lui».
Ma le lettrici del romanzo esalteranno Marina a tutto danno della “sana e corroborante” Edith: si è affermato che nel personaggio di Marina c’è «una sorta di vendetta delle lettrici borghesi, sia contro il turpe egoismo dell’uomo, sia contro certe pretese della società maschile, che intendeva difenderle in un’estasi di sottomissione. L’esempio della donna fatale, negativo secondo un’ottica maschile che vede in lei confermati ancestrali timori di castrazione di morte, si rovescia in positivo se assunto criticamente come iperbole di una reale volontà di emancipazione da schemi socialmente superati da parte delle lettrici che ne decretarono il successo» (Isabella Nardi).
Il 1910 è un anno cruciale per le sorti della donna fatale nella letteratura colta italiana. Escono Forse che sì, forse che no di D’Annunzio, nel gennaio, da Treves, e Leila di Fogazzaro, nel novembre, da Baldini e Castoldi.
Sono anche gli ultimi romanzi dei due scrittori.
Due opere dalle caratteristiche ardite e audaci, anche in senso erotico, eppure spregiudicatamente conservatrici, in linea con esigenze nazionalistiche diverse, ma entrambe proiettate verso certe parole d’ordine che di lì a non molto formeranno l’ideologia fascista della gestione totalitaria: fede e famiglia, macchina e azione, vitalismo e attivismo, estetizzazione della prassi e nazionalismo.
In tal senso, parlare a questo livello di donne-sfinge, di donne fatali diventa quasi ridicolo.
Tanto più se si propende verso la tesi da più parti sostenuta che la femme fatale sia «una creazione maschile di uno stereotipo di donna, ed è legata alla crisi sessuale degli ultimi decenni dell’ottocento» (I. Nardi).
Dunque Leila di Fogazzaro e Isabella Inghirami di D’Annunzio stanno sul bordo finale, sono l’ultima pagina su cui si muove il tipo ottocentesco di femme fatale.
Scompare lo stereotipo, resta in qualche modo il mito. Alla fascinazione del doppio che permea le figure di Verga, D’Annunzio, Fogazzaro si aggiunge l’impasto di umoristico e grottesco – come in Pirandello, in Palazzeschi.
Queste donne fatali sono parodizzate da Guido Gozzano (la signorina Felicita e la serie di cocottes delle sue poesie), da Eugenio Montale (Esterina in Ossi di seppia, Falsetto), dalle donne delle poesie e dei romanzi di Aldo Palazzeschi, da A mia moglie di Umberto Saba: è proprio lo statuto parodico a garantire possibilità di sopravvivenza a una figura che nel Novecento subisce una mutazione, mantenendo certi tratti soprattutto formali (restano i dettagli del personaggio come per esempio la duplicità, il color viola, l’ambiguità sessuale, la carica funebre, la carica sensuale dei capelli, lo sprezzo, gli amori pericolosi: ciò significa la trasfigurazione a “mito”) ma avviandosi a diventare, più che del rimosso, figura di un mistero accettato come parte costitutiva della condizione “moderna”.
INIZIO NOVECENTO – LA DONNA FATALE DA MOSTRO MINACCIOSO A EROINA DELLA MODERNITÀ
Il terrore borghese dell’emancipazione della donna, che si manifesta nel ricorrere della fantasia della donna fatale, e ancora la forma misogina che la cultura maschile assegna all’espressione di tale stereotipo, si ripresenta nella Angiolina Zarri di Senilità di Italo Svevo (1898), nel quale la struttura dualistica della donna fatale ricorre con grande evidenza, ma anche nell’Ada Malfenti della Coscienza di Zeno: il rovescio dell’Angiolina è in Senilità Amalia; ed è la moglie vera di Ettore Schmitz, Livia Veneziani, come lui la educa nel Diario per la fidanzata.
Ma l’Europa cambia, la donna fatale è sempre più venerata come dea e simbolo di una cultura nuova, più libera.
La pittura – Klimt – e la letteratura viennese di inizio secolo la esaltano: Frank Wedekind fa iniziare così il suo Mine-Haha: «Una donna che si guadagna la vita con l’amore è ai miei occhi ben più degna di stima di una che si abbassa a scrivere romanzi d’appendice o addirittura libri». Nel saggio che accompagna l’edizione Adelphi del 1975, Roberto Calasso intende mostrare come «i misteri del parco di Mine-Haha aprano la porta, simultaneamente, sia su un’utopia del corpo sia sul vasto teatro della perversione del mondo delle merci, sicché, dietro agli esercizi delle fanciulle, il lettore vedrà profilarsi le ombre di Marx, Baudelaire, Klossowski e Benjamin» (lo stesso Calasso nella quarta di copertina). Mine-Haha fu pubblicato per la prima volta nel 1901. Si consulti anche il sito www.gustavklimt.cjb.net
Il secolo si apre con gli sguardi perentori delle Damoiselles d’Avignon di Picasso (1907), mentre la liberazione della libido come tratto delal modernità è stata già affermata con Le déjeneur sur l’herbe di Edouard Manet (1862-63).
Klimt sosteneva che la donna «è in tutto migliore e più perfetta dell’uomo», la dipingeva sovente come una creatura sì bellissima, ma tremenda e minacciosa, facendole incarnare l’idea della Lussuria, con la sua conturbante sensualità, facendola partecipare insomma ancora sia del carattere nuovo sia delle antiche paure.
Dunque troviamo nel Novecento, con le avanguardie storiche in particolare, un nuovo modo di vedere la donna e la donna fatale – non più minaccia ma vera eroina del secolo nuovo – per quanto non siano andati cancellati i segni dell’antico terrore. Un’utopia fisico-spirituale che non è estranea alle scoperte della psicanalisi e alla liberazione (riconquista?) di aree segrete della psiche.
È nota la misoginia professata da Marinetti e dai diversi manifesti del Futurismo, nel primo del quale si afferma il principio del «disprezzo della donna».
Ma sono altrettanto note le presenze di donne fatali, vincenti, sul tipo dell’eroina che afferma se stessa ai danni della mentalità filistea, in Mafarka il futurista (1909) dello stesso Marinetti, e nel suo racconto Le Roi-Bombance, carnevalizzata parodia di un mondo, quello ottocentesco, che allunga il suo crepuscolo fino alle soglie della Grande Guerra: un’immaginaria donna fatale è così interpellata: «Voi da assaggiatrice di maschi qual siete, ricchissima, sfaccendata, vedova amorale, avete ormai bevuto come tuorli d’uova gli uomini più originali d’Europa».
Un lampo nel Futurismo delle origini è quello di Valentine de Saint-Point, anche lei incarnazione del suo ideale di donna nuova. La de Saint-Point è protagonista di due divertenti e provocatori manifesti futuristi: nel 1912 del Manifesto della donna futurista e nel 1913 del Manifesto futurista della Lussuria.
In realtà c’è poco di divertente in qualche proposizione, che rientra nella retorica della “guerra sola igiene del mondo” e in una visione superomistica nel senso più deteriore e greve. Ma fa parte della strutturale ambiguità del futurismo, eversore sul piano del linguaggio artistico, accomodante sul piano politico e ideologico con quanto di peggio si andava preparando nel “secolo breve”.
La de Saint-Point rifiuta la donna sentimentale, la borghese pavida e perbenista, la donna infermiera e la madre protettiva, e propone modelli alternativi: «le Erinni, le Amazzoni; le Semiramide, le Giovanna d’Arco… le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi». Conclude il Manifesto della donna futurista: «La donna, che colle sue lagrime e il suo sentimentalismo ritiene l’uomo ai suoi piedi, è inferiore alla prostituta che spinge il suo maschio per vanagloria a conservare col revolver in pugno la sua spavalda dominazione sui bassifondi della città. Questa femmina coltiva almeno una energia che potrebbe servire migliori cause».
E poi ancora, nel Manifesto futurista della lussuria: «Distruggiamo i sinistri stracci romantici, margherite sfogliate, duetti sotto la luna, tenerezze pesanti, falsi pudori ipocriti. Che gli esseri, avvicinati da un’attrazione fisica, invece di parlare esclusivamente della fragilità dei loro cuori, osino esprimere i loro desideri, le preferenze dei loro corpi, presentire le possibilità di gioia, o di delusione della loro futura unione carnale… BISOGNA FARE DELLA LUSSURIA UN’OPERA D’ARTE… La sentimentalità segue le mode, la Lussuria è eterna». «La Lussuria è l’espressione di un essere proiettato al di là di se stesso; è la gioia dolorosa d’una carne compìta, il dolore gaudioso d’uno sbocciare… La Lussuria è la ricerca carnale dell’ignoto… La Lussuria è il gesto di creare, ed è la Creazione. La carne crea come lo spirito crea. La loro creazione di fronte all’Universo è uguale. L’una non è superiore all’altra, e la creazione spirituale dipende dalla creazione carnale».
È da sottolineare che Marinetti – esteta anche della politica, ambiguo sotto il profilo ideologico, in questo frangente fedele alla propria matrice radicale e libertaria – in Democrazia futurista del 1919 affronta concretamente questioni come l’emancipazione dei costumi, la questione femminile, il divorzio, il voto alle donne, la parità salariale, la parità giuridica, il superamento del matrimonio, l’obiettivo del “figlio di stato”, il libero amore. «La famiglia come è costituita oggi dal matrimonio senza divorzio è assurda, nociva e preistorica. Quasi sempre un carcere…» e la famiglia per la donna «nasce quasi sempre da una legale compra-vendita d’anima e di corpo» e i futuristi intendono dunque «distruggere non soltanto la proprietà della terra, ma anche la proprietà della donna».
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