Donne fatali 2: Giacomo Leopardi e Aspasia - "Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando..."
Autore: Michele RueleMar, 15/12/2009 - 11:04
Di Michele Ruele
«… questa è la prima donna moderna che appare nella poesia italiana»: così Luigi Russo sulla Aspasia di Giacomo Leopardi.
Si tratta della protagonista del canto omonimo, probabilmente composto nel 1832, poesia da inserire nel breve ciclo d’amore che si sviluppa fra il 1831 e il 1835 e che comprende Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, la stessa Aspasia e infine la novella in versi Consalvo, quest’ultima però dislocata in altra parte dei Canti. Aspasia è un nome recuperato dall’età d’oro di Atene, dall’etèra amica di Pericle, bella e dotta.
In realtà Russo insiste sulla componente “filosofica”, sull’Aspasia dotta più che sull’allettatrice.
Parecchi lettori sono spiazzati dall’ambientazione del canto di Leopardi, dai «vezzosi appartamenti», dai vestiti color «della bruna viola»; sono impressionati dal «seno ascoso e desiato», dalla dichiarazione - tutta al presente e priva del velo della rimembranza o del vago - che Aspasia è «bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l’altre avanzi».
Il fascino fatale della donna non si sviluppa solo nel ciclo di Aspasia ma si riverbera anche negli altri canti degli stessi anni 1831-35 – e con il cosiddetto “ciclo di Aspasia” creano in tal senso una sequenza contenutistico-narrativa di forte impatto unitario – per esempio in questi versi di Sopra il ritratto di una bella donna (1834 o 1835): «… Quel dolce sguardo / che tremar fè, se, come or sembra, immoto / in altrui s’affisò; / quel labbro, ond’alto / par, come d’urna piena, / traboccare il piacer; quel collo, cinto / già di desio; quell’amorosa mano, / che spesso, ove fu porta, / sentì gelida far la man che strinse; / e il seno, onde la gente / visibilmente di pallor si tinse…».
Sono le ultime poesie d’amore di Giacomo Leopardi – d’altro si tratta con il «vero amor» nella Ginestra. Nemmeno il distacco neoclassico e la letterarietà alta dello stile temperano la forza e la concretezza di queste immagini femminili.
Eppure in Leopardi la figura femminile oscilla sempre fra eros carnale e platonizzazione: nella donna che irraggia richiami erotici, anzi, nella stessa conquista erotica, l’amante di Leopardi ama un’altra, anche nei «corporali amplessi» desidera e ama l’«amorosa idea», la donna ideale, quella la cui beltà è un «raggio divino», che ha gli effetti della «bellezza» e dei «musicali accordi», quella che è ancora una «figlia della sua mente» e trova solo una maschera in prestito nel «volto», nei «costumi», nella «favella» della donna reale.
Per tornare ad Aspasia, la “donna fatale”, in questo caso Fanny Targioni Tozzetti nascosta sotto il senhal, è in Leopardi il punto di incontro fra l’idea platonica e la donna reale; prevalgono in tale incontro le contraddizioni; dualità, inconciliabilità e ambiguità di idea e realtà della donna sono componenti decisive per iscrivere la Targioni Tozzetti insieme alle altre figure femminili di Leopardi nella schiera che annovera Kali, Ecate, Empusa, Lamia, le Chere, le Furie, Scilla e Cariddi, Medusa, la Sfinge, Lilith ed Eva, Pandora, Elena, Fedra, Medea, le Sirene, le Amazzoni, Circe, Calipso, Dalila, Giuditta, Salomè, Cleopatra, Teodora, Isotta, Ginevra, Alcina Armida e Marfisa. Ci stanno anche le donne dei libri romantici, Carlotta Teresa Corinna; ma, e questo è un dato raramente rimarcato, dal ciclo di Aspasia in poi Leopardi pare ormai muoversi oltre il Romanticismo.
Il sogno di bellezza e perfezione ideale era già confluito in opere più giovanili, nei canti Il primo amore (1817) e Alla sua donna (1823), nelle prose Memorie del primo amore, nei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, nello Zibaldone, più di dieci anni prima di Fanny, quando Leopardi era sui vent’anni.
«Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando,
benché tutto il resto del mondo fosse per me come morto».
Amare significava fantasticare sull’amore, delirare nelle stanze notturne, sognare ed evitare il contatto con la realtà: «Più volte ho evitato per parecchi giorni di incontrare l’oggetto che mi aveva affascinato dentro un sogno delizioso».
In una lettera del 1880 Antonio Ranieri racconta:«… i suoi amori erano quasi tutti unilaterali, ed inavvertiti dalla persona amata».
Il primo amore, nel 1817, quando Leopardi ha diciannove anni, nasce dall’infatuazione per la cugina Gertrude Cassi-Lazzari; Alla sua donna è invece il frutto della riflessione su un’amante ideale, nel 1823: «Cara beltà che amore / lunge m’ispiri… se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita… questo d’ignoto amante inno ricevi».
Ma già nello stesso 1823 Leopardi, sentendo di stare facendo prevalere l’idea nella dualità idea-realtà, ricorre a immediate contromisure rispetto alla pervasività platonizzante della propria poesia d’amore. A Pietro Brighenti scrive che la donna è un «animale senza cuore». All’allettamento ideale reagisce con la misoginia; traduce la satira contro le donne di Simonide. E infine anche la pubblicazione di Alla sua donna è accompagnata da una nota ironica e feroce: «La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una qualche alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova».
Gertrude Cassi-Lazzari aveva «i lineamenti forti, gli occhi e i capelli neri, la persona grande», un tipo ideale di donna per Leopardi, che descriverà un aspetto analogo nella gigantesca Natura dell’Operetta dedicata all’Islandese, con il volto «tra bello e terribile».
Prima di Fanny-Aspasia – ma è chiaro che interessa, al di là delle vicende biografiche, la trasfigurazione letteraria – Leopardi si innamora nel 1826, a Bologna, di Teresa Carniani Malvezzi. Teresa «conosceva un linguaggio della lusinga che egli aveva sino allora contemplato come un alfabeto di geroglifici. Parlava da poetessa e si muoveva come una dama, con il brio, i capricci e la delicatezza delle eroine letterarie sulle quali si modellava… Leopardi restò invischiato nella sua rete come il più ingenuo degli innamorati» (così Rolando Damiani, biografo di Leopardi). Giunge perfino a perorare con l’editore Stella la pubblicazione della traduzione fatta dalla Malvezzi sul Somnium Scipionis di Cicerone, salvo poi ritirarsi imbarazzato. Leopardi non amava certe frequentazioni femminili basate sulla lettura di versi di queste ultime, né le donne che avevano verso di lui atteggiamenti pietosi o materni (ad esempio Adelaide Maestri gli risulterà noiosissima e odiosa per le «troppe cure assidue insistenti»).
Ma ecco che negli ambienti letterari e mondani di Bologna si sparla molto del sodalizio Malvezzi-Leopardi, si diffondono dicerie pesanti. «Un aneddoto feroce, che assomiglia alla favola di Aristotele cavalcato dalla bella Fillide, narrava per il divertimento di chi lo conosceva che il conte, sgraziato nel fisico ma ammirato per la sua dottrina, si era genuflesso davanti all’amata per dirle che l’adorava e la belle dame sans merci aveva suonato il campanello per ordinare al cameriere di portare un bicchiere d’acqua al suo ospite ardente» (Rolando Damiani).
Infine è la Malvezzi ad allontanarlo, gli fa sapere che le loro conversazioni le appaiono noiose. Leopardi la pregherà di riammetterlo con alcune brevi lettere, nonostante la freddezza esibita dalla donna. Dopo il soggiorno a Recanati tra fine 1826 e inizio 1827, Leopardi torna a Bologna in aprile: la contessa Malvezzi lo tiene lontano, e anzi diffonde altre dicerie contro di lui. Pietro Giordani, preoccupato, si informa da Brighenti se sia vero che Leopardi si è ripresentato da lei, «spregevolissima e fastidiosissima, non bella non brava non buona». Alla fine Giacomo Leopardi fu durissimo, la delusione lo spinse a confidarsi con l’amico Papadoli con questi toni: «Come ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai; e se non dico di lei tutto il male che posso. L’altro giorno, incontrandola, voltai la faccia al muro per non vederla».
Torneranno, ancora, le illusioni. Leopardi ama, in modo del tutto disinteressato e puro, le belle giovani; le “donzellette” della semplicità campagnola e delle vie cittadine. Per esempio la giovane figlia dei padroni di casa dove abita a Pisa nell’inverno fra il 1829 e il 1830, una ragazzina gentile che lo colpì molto e non è estranea alla rinascita poetica e ai ritratti di Silvia e Nerina dei famosi canti scritti fra Pisa e Recanati.
Ma per tornare a Aspasia-Fanny.
Nel luglio del 1830 Leopardi conosce Fanny Targioni Tozzetti. Gli ambienti letterari e mondani, molto pettegoli, le attribuiscono una lunga serie di amanti. Ecco uno stralcio di lettera di Alessandro Poerio a Antonio Ranieri: «Leopardi e Niccolini dicono essere ella non solo bellissima e cortese di modi, ma eccellente oltre al solito delle donne nella pittura, nelle lingue moderne ed in altri pregi. La Targioni [...] è ormai fatta tutta letteratura e signoria. Dicesi che Carlo Torrigiani sia attualmente il suo favorito. Altri nominarono Luigi Mannelli. C'è pure chi pretende che Gherardo Lenzoni e il marchese Lucchesini di tempo in tempo facciano incursioni sull'antico dominio. Io non posso indurmi a credere di sì prudente donna così licenziose novelle e credo che de' quattro amanti almeno due siano favolosi».
Quando ormai la vicenda biografica e letteraria sarà conclusa, nel 1835, Fanny Targioni Tozzetti scriverà all’amico di Leopardi, Antonio Ranieri – i tre hanno condotto uno strano ménage a trois, negli anni fra il ’30 e il ’33 - :
«E di Leopardi che n’è? io sono già nella sua disgrazia, non è vero? “ed il grand’amore si convertì in ira”: ciò mi è accaduto sovente, perché nella filza dei miei adoratori ho avuto certi camorri da far paura; e perché con quelli che non erano in questa categoria non ho potuto mai spogliarmi da quel maledetto e brutto pensar volgare del quale mi avete sempre accusata».
Fanny, all’epoca ventinovenne, moglie del professor Antonio Targioni Tozzetti, botanico e medico, è donna di lettere e colleziona autografi di letterati famosi. Leopardi scrive numerosi biglietti per procurargliene, con una insistenza davvero inusuale, dimostrandosi subito fin dai primi incontri un suo suddito. È, scrive, «bellissima e gentilissima (anzi l’amabilità e la gentilezza stessa)» e la ammira come una «dea». È verso il maggio del ’31 che le avventure si complicano. L’amico Ranieri è vinto dall’amore per un’attrice, sposata, che segue per l’Italia nella sua tournée. Leopardi, a Firenze, tiene i contatti fra la Tozzetti e lo stesso Ranieri. Vive di riflesso le furiose avventure galanti del giovane amico. Ma non si tratta solo di questo. Ranieri – fatte le dovute tare alla sua attendibilità di testimone – racconta nelle sue memorie di un abbandono di Leopardi a «vani e inavvertiti soliloquii d’amore» che travalicavano «i confini imposti alla dignità». Queste allucinazioni erotiche, che si adattano all’immagine stravagante dell’autobiografia di Ranieri che la compilò da vecchio, datano all’estate del 1831. Ma tali furie notturne non sono del tutto nuove, è lo stesso Leopardi che le ha già raccontate, a proposito del suo amore giovanile per Gertrude Cassi.
Sono con ogni probabilità i mesi della composizione del primo canto del cosiddetto “ciclo di Aspasia”, Il pensiero dominante. Amore è «dolcissimo, possente / dominator… terribile, ma caro / dono del ciel»; amore ha una natura «arcana».
È della figura della donna fatale la venatura funebre, oscura, cupa, onnipotente: c’è nell’amore il volto terribile e arcano del male, dell’Arimane a cui Leopardi in questo periodo dedica un importante abbozzo di canto. L’amore non lascia niente attorno a sé: «gli altri pensieri miei / tutti si dileguàr».
La donna fatale, pur tollerata da un’età moderna tutta rivolta al progresso e all’utile, le è contraria. Distoglie il maschio dalle sue occupazioni - l’accumulo, l’industria, la fiducia nella tecnologia e nel progresso - dal suo esercizio del potere, dalla guerra, come Marte abbracciato a Venere, come Rinaldo vinto da Armida:
«Che intollerabil noia / gli ozi, i commerci usati…»,
«Di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica; / stolta, che l’util chiede, / e inutile la vita / quindi più sempre divenir non vede; / maggior mi sento…».
Amore, «prepotente signore», fa ancora sognare Leopardi:
«tutto quanto il ver pongo in obblio!»,
amore è «sogno e palese error»,
mentre «cresce quel gran diletto / cresce quel gran delirio, ond’io respiro».
In toni stilnovistici, Fanny è qui ancora il positivo motore del ritorno di un sogno, «angelica sembianza».
Nell’inverno fra il 1831 e il 1832 Leopardi è a Roma, per accompagnare Ranieri nella folle avventura d’amore di quest’ultimo con l’amica attrice. Pur malato, scrive lettere a “Madama Targioni” molto attente e tutte rivolte a farsi ricordare da lei. Nel 1832 è di nuovo a Firenze e frequenta costantemente casa Targioni. Il ruolo di Leopardi è però quello del tramite fra la donna e Ranieri: la Targioni avrebbe probabilmente allontanato da sé Leopardi, non fosse stato per questo. E quando si dovrà spiegare sarà chiaro ciò che pensava davvero.
Quando Leopardi accennava cose d’amore, sosteneva la Targioni con Ranieri, «io m’inquietavo, e non volevo, né anco credevo vere certe cose, come non le credo ancora…».
Pochi mesi dopo la morte di Leopardi, nel 1837, scriveva a Ranieri giurando di non aver mai dato la «minima lusinga a quel povero uomo», che si sarebbe sentita colpevole a deridere «un infelice e un brav’uomo come lui» e sperava così di risparmiarsi la pena di credersi responsabile, «senza volerlo», di un affronto a una «persona così disgraziata».
Quel «senza volerlo» è un capolavoro di femminilità crudele. Non c’è definizione di Leopardi data dalla Targioni Tozzetti che non suoni oltraggiosa. Le parole finali, da parte sua, su questa storia, sono quelle riferite da una conversazione con Matilde Serao, che le aveva chiesto del rifiuto opposto a Leopardi: «Mia cara, puzzava» sentenziò “Madama Targioni”.
Ben altro da parte di Leopardi, ed è in effetti la vicenda letteraria che ci interessa di più. Aveva scritto le riflessioni di Amore e morte, i sogni positivi di Consalvo. In Amore e morte c’è un senso di isolamento dell’innamorato, che non patisce più solo la pena d’amore, o la separazione dal resto delle occupazioni della sua vita, ma vede con chiarezza la «procella» che «mugghiando, intorno intorno oscura». L’amante sottostà al sadismo della natura: «il villanello ignaro, / la tenera donzella / con la man violenta / pongon le membra giovanili in terra. / Ride ai lor casi il mondo…». Con tale consapevolezza non si può che attendere la virginea morte, così simile all’amore, ma «erta la fronte, armato / e renitente al fato» (La ginestra).
La fine dell’amore è nel canto A se stesso.
E la vendetta e la liberazione sono nel ritratto impietoso di Aspasia.
Leopardi «costruisce una figura di femme fatale secondo i vulgati particolari di un topos letterario ben noto» (E. Giordano). Per questo sceglie la figura dell’etèra ateniese.
Leopardi ricorda in una nota dello Zibaldone del 1823 l’Aspasia dotta, maestra di retorica e di discorsi commemorativi, quella dell’ «orazione funebre recitata da Socrate in persona d’Aspasia nel Menesseno di Platone». Ma il Leopardi lettore di Plutarco conosceva anche altri lati:
«Aspasia dicono che conquistò l’affetto di Pericle con la sua non comune saggezza. Socrate stesso andava talvolta a trovarla in compagnia dei suoi discepoli, e i suoi amici intimi vi conducevano ad ascoltarla anche le mogli, benché attendesse a un mestiere punto decoroso né onesto, quale quello di allevare giovani cortigiane… I commediografi invece la chiamavano “novella Onfale”, “Deianira” e persino “Era”… Cratino nei suoi versi la definì senza tanti giri di parole “concubina”… Aspasia fu citata in tribunale per miscredenza su accusa del commediografo Ermippo, che l’accusava pure di ricevere abitualmente in casa signore di buona famiglia per il piacere di Pericle».
Nel canto del poeta disingannato e vendicativo si dispiega il ritratto tipico della donna fatale.
Siamo (nei versi di Aspasia) in un interno borghese: i particolari sono scarni, ma la novità di tale ambientazione nella poesia non solo di Leopardi è davvero rilevante. Aspasia appare «del color vestita / della bruna viola», un colore funebre, decadente, «circonfusa d’arcana voluttà». La «dotta allettatrice», ecco i due termini che la definiscono, è fissata mentre «baci scoccavi nelle curve labbra / de’ tuoi bambini». Tutto è innocente finché non è toccato dalla donna fatale, è il suo contatto a portare l’ambiguità. Il gesto di coccolare i bambini le fa scoprire «il niveo collo» e invidiare l’astante per la stretta dei piccoli «al seno ascoso e desiato».
La misoginia tocca livelli inusitati: «ciò che inspira ai generosi amanti / la sua stessa beltà, donna non pensa, / né comprender potrìa. Non cape in quelle / anguste fronti ugual concetto». L’uomo è ingannato, sì, ma dalla bellezza di chi «dell’uomo al tutto / da natura è minor».
Ma l’inganno è vinto: «Cadde l’incanto, / e spezzato con esso, a terra sparso / il giogo, onde m’allegro».
La poetica dei Canti di Leopardi muta radicalmente in questo periodo. Non più vaghe indefinitezze, ma precisione ed energia verbale; non più paesaggi cari ed evocativi, né idilli, ma interni, oppure deserti scabri e realismo; non più simboli rarefatti ma allegorie. Oppure l’altra soluzione, quella comica e satirica dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Insomma, il sogno di Aspasia e il successivo superamento corrispondono anche al superamento della poetica del Leopardi idillico e sentimentale, forse addirittura del Romanticismo tout court.
Aspasia, insomma, oltre che essere la femme fatale, è anche la figura del superamento di un’età letteraria. È in questo senso, soprattutto, che si può essere d’accordo con il Russo quando scrive che «… questa è la prima donna moderna che appare nella poesia italiana».
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