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Intervista a Giorgio Vasta

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Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Se penso al percorso normale, quello delle scuole elementari, è chiaro che non c’è nulla di fortuito bensì la classica regolarità che prevede, raggiunti i cinque sei anni, l’apprendimento della parola scritta. Se invece devo pensare a una focalizzazione sulla scrittura, un primo momento di consapevolezza, credo che grosso modo negli stessi anni in cui ho imparato a scrivere – ancora nel senso di comporre le lettere che danno forma alle parole – mi sono accorto che in quell’azione c’era qualcosa che mi incuriosiva, qualcosa che trascendeva la pura e semplice costruzione delle frasi. Non mi riferisco a un valore simbolico, non parlo dei significati ma di un fenomeno strettamente fisico. Quello che nella paleografia si chiama ductus, vale a dire l’andamento, la traiettoria che la mano che impugna la penna disegna nello spazio tracciando dei segni su un foglio di carta, mi sembrava e continua a sembrarmi un fenomeno straordinario, fabbricazione e distruzione insieme. Il mio avvicinamento alla scrittura, dunque, è stato prima di tutto un fatto materiale, la scoperta di un modo di esistere del corpo.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Faccio un po’ di fatica a immaginare l’esistenza reale di questi due estremi. Quello che si chiama istinto creativo mi dà l’idea di essere una specie di scaturigine biologica, un’escrezione priva di forma e di direzione; del resto la razionalità consapevole sembra soprattutto o soltanto struttura e direzione. Insomma, credo che in effetti la produzione di scrittura si manifesti sempre – e del tutto naturalmente – nella combinazione di queste due presunte polarità, nello stesso modo in cui se dentro la carne della mano non ci fossero carpo metacarpo e ossa delle dita non riusciremmo neppure a tenere la penna. Fisiologica consustanzialità degli apparenti opposti, quindi.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Nessuna ispirazione, il problema è soprattutto il tempo disponibile. Per scrivere me ne serve una buona quantità, possibilmente continuativo e con poche o nessuna distrazione (è chiaro che sul versante delle distrazioni possibili – mail alle quali rispondere, telefonate che arrivano e così via – si gioca la propria capacità di concentrazione e in generale la propria determinazione a scrivere). Tendo quindi a usare le vacanze e i fine settimana, in certi periodi anche la notte, prima che la stanchezza non si faccia troppo debilitante.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Di un taccuino, se sto prendendo appunti a penna, o del computer, se sto scrivendo direttamente a video. Se è possibile preferisco stare seduto a un tavolo, qualsiasi tipo di tavolo. Al di là di questo non ho nessuna particolare esigenza né, temo, curiosità o aneddoti.

Wilde si inchina di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava sputare sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

In passato c’era pura inconsapevole ammirazione ma questa ammirazione era molto esigente e selettiva e sceglieva di concentrarsi esclusivamente sui morti. Nel senso che la condizione di esistenza di un romanzo – la condizione che senza rendermene conto mi ponevo per leggerlo – era che l’autore fosse morto, e possibilmente da diversi decenni. La sua morte equivaleva a un certificato di garanzia, in quel periodo avevo fiducia nei morti. Inoltre facevo valere, ma in maniera meno rigida, anche una questione di genere sessuale: il libro doveva essere stato scritto da uno scrittore morto da un po’, che però doveva essere di sesso maschile. Maschio e morto, dunque. Se è vero che questo contribuiva a radicalizzare il mio atteggiamento discriminatorio è altrettanto vero – giusto per salvare il salvabile – che se maschile corrispondeva a morto, femminile, per contrasto, aveva a che fare con il vivente.
Dopo un po’ di tempo ho cominciato ad ammettere l’esistenza degli scrittori contemporanei. All’inizio in effetti mi pesava che fossero vivi (confidavo almeno in una cattiva salute) ma a un certo punto me ne sono fatto una ragione. Anche la differenza di genere è diventata irrilevante. Oggi leggo le scritture senza pensare a condizioni come maschio femmina vivo morto. Penso agli scrittori come a zombie ermafroditi.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Sono in contatto con alcuni scrittori con i quali esiste soprattutto un legame d’amicizia. Il fatto che vivano in una città diversa da quella in cui vivo io, che è Torino, o a tre isolati di distanza diventa spesso secondario considerato che la posta elettronica e la scrittura in rete mettono nelle condizioni di “frequentarsi” in modo più o meno continuativo indipendentemente dal luogo nel quale ci si trova. Al di là di questo tendo a invidiare la possibilità di frequentazione quotidiana e diretta che hanno gli autori che vivono a Roma, probabilmente perché tra loro ce ne sono diversi ai quali mi sento legato.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Credo che la letteratura non salvi e non redima. Non fa tornare indietro nessuno. Credo sia un’azione radicalmente umana, segnata dunque da quello che mi sembra un carattere profondo dell’umano, vale a dire l’incapacità, il non saper venire a capo. Il fatto però che sia la scrittura il luogo nel quale compiere il tentativo fallibile di fabbricare forme lo considero un bene. La tensione necessaria a questa fabbricazione è quella zona di umano nella quale mi piace stare.

La ringrazio e buona scrittura.

Grazie a lei.


Giorgio Vasta (Palermo, 1970) vive e lavora a Torino. Ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, di prossima pubblicazione in Francia, Germania, Olanda, Spagna, Stati Uniti e Inghilterra), selezionato al Premio Strega 2009 e finalista al Premio Berto, al Premio Dessì e al Premio Dedalus. Sempre per minimum fax ha curato, nel 2009, l’antologia Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile. Ha fatto parte di Nazione Indiana e oggi collabora con il blog letterario MinimaetMoralia (http://minimaetmoralia.wordpress.com/).

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