Il talento nella letteratura, come pesarlo
Autore: Morgan PalmasGio, 26/11/2009 - 12:24
Di Giovanni Pannacci
Prendiamo un romanzo, lo leggiamo, lasciamo che ci accompagni per qualche giorno, poi lo chiudiamo e gli diamo un posto. Una collocazione fisica nella libreria e una collocazione mentale nel nostro personalissimo archivio dei libri letti.
Ma quali parametri utilizziamo per “pesare” la qualità di un romanzo, per decidere se ciò che abbiamo letto è letteratura mediocre oppure ottima?
Tutti noi, di romanzo in romanzo, abbiamo sviluppato, credo, una certa abilità nel riconoscere quelle piste letterarie destinate a condurci verso trame e sviluppi avvincenti e – di contro – a fiutare altrettanto repentinamente quelle tracce che da subito si capisce non condurranno da nessuna parte. Cos’è, dunque, che in un romanzo ci cattura? Quali sono, in una narrazione, gli elementi che ci fanno chiudere l’ultima pagina con il cuore colmo di emozione e gratitudine?
Non è la trama né l’intreccio, né i dialoghi né l’ambientazione, né l’abilità tecnica dell’autore.
Abbiamo tutti amato romanzi ricchi di azione, ma ricordiamo con struggente piacere anche romanzi capaci di raccontare il vuoto, il nulla, il rarefatto frammento di un attimo.
Amiamo i dialoghi scattanti e serrati, ma anche le digressioni che, come lente maree, ci trasportano al largo. Amiamo la letteratura così detta di genere, ma anche il romanzo di stampo classico o quello più “sperimentale”. Ma allora cos’è che andiamo a cercare per “pesare” la qualità di un romanzo? Dopo averci riflettuto un po’, m’è tornato in mente un breve saggio scritto dal premio Nobel Orhan Pamuk (“La valigia di mio padre” Einaudi, 2007) e ho capito che in un romanzo dobbiamo cercare la cosa all’apparenza più difficile da trovare, quella più invisibile e leggera: un ago. Se il romanzo è ben riuscito, il suo autore deve per forza aver lasciato un ago nascosto fra le pieghe delle pagine.
Scavare un pozzo con un ago, spiega Pamuk, è la splendida immagine che nella lingua turca si usa per descrivere il lavoro dello scrittore. Se un romanziere ha costruito la sua storia come se avesse scavato un pozzo con un ago, noi lettori ce ne accorgiamo immediatamente. La pazienza, il rigore, la perizia, fanno sì che nel romanzo si crei una forza e una saldezza interna che tiene insieme tutto.
Perché è questo, in definitiva, ciò che chiediamo allo scrittore: di essere coerente.
Siamo felicissimi di farci trasportare in luoghi lontani o addirittura inventati, siamo dispostissimi ad accettare l’esistenza di mostri, di creature bizzarre o di uomini e donne dalla personalità complessa. Siamo docilmente disponibili a seguire lo scrittore ovunque egli voglia portarci, ma una volta lì pretendiamo coerenza, esigiamo che la finzione non sia fittizia, ma che sia vera fino al fondo più profondo della menzogna. Ecco, se il pozzo della finzione è scavato con poche bracciate scomposte, magari usando sgraziatamente una vecchia pala o, peggio, una trivella rumorosa e arrugginita, io me ne accorgo. Se invece, pagina dopo pagina, mentre leggo, avverto il lievissimo rumore bianco di una punta minuscola che gratta le pareti della mia attenzione, so che, abbandonato da qualche parte nella storia che sto leggendo, c’è un minuscolo ago lasciato dallo scrittore solo per me. Noi, da lettori, non vogliamo semplicemente sentirci raccontare una storia, vogliamo entrare in un mondo, percorrere un edificio, una strada, una città dalle solide architetture.
Lo scrittore non deve semplicemente raccontare una storia, ma costruirla. Solo così il lettore potrà entrare dentro al romanzo ed abitarlo. (E avventurarsi alla ricerca dell’ago).
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