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Intervista ad Alessandro Perissinotto

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Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Ho scritto i miei primi racconti a sedici anni e la scrittura è stata per me la semplice, ma non fortuita, conseguenza del leggere, di quell’innamoramento per le parole e per i libri che mi ero preso già molti anni prima. A sedici anni, dopo il mio primo viaggio per l’Europa da solo (con l’allora mitico InterRail), ho pensato di aver accumulato abbastanza esperienze per aver qualcosa da raccontare. Naturalmente non era così e ci sono voluti quasi dieci anni perché tanto le esperienze quanto la consapevolezza della scrittura mi portassero al romanzo: però l’inizio è questo.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Direi che mi colloco molto vicino alla razionalità consapevole: in me l’istinto creativo obbedisce a un preciso intento comunicativo. I miei libri, anche i polizieschi che ho scritto fino all’anno scorso (e a maggior ragione il nuovo romanzo che si intitola “Per vendetta”), sono romanzi di denuncia, per quanto il termine appaia forse un po’ vecchiotto e abusato. Sono romanzi che partono dalla constatazione di una sorta di “urgenza sociale”: in passato questa “urgenza” è stata per me rappresentata dal tema della memoria (“Treno 8017”), o da quello della dignità del lavoro (“La canzone di Colombano”, “Una piccola storia ignobile”). In “Per vendetta” ho deciso di indagare sulla questione del perdono e dei diritti delle vittime. Con questo tipo di approccio alla scrittura (che naturalmente non è l’unico possibile, ma è il mio), è difficile pensare di abbandonarsi al puro istinto.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Cerco di domare il caos dell’ispirazione attraverso un metodo. Ci sono mille cose nella vita che mi ispirano, che, secondo me, meriterebbero di essere trasformate in romanzo. Allora, come prima cosa, prendo appunti; segno su un taccuino e poi su un file un abbozzo di trama. Poi, per alcuni mesi (talvolta per anni) rivedo quello schema e lo metto alla prova, mi chiedo ripetutamente quali sono i suoi punti deboli, se è davvero in grado di svolgere quell’azione di denuncia che, come dicevo prima, per me è fondamentale. Se dopo un po’ di tempo la bozza di trama ha retto, passo alla stesura della trama vera e propria: una quindicina di pagine che mi servono da guida per la scrittura, una guida a cui si possono poi imporre cambiamenti, ma che rimane come un punto di riferimento. Terminata la trama, passo alla documentazione fotografica dei luoghi che descriverò: 300 o 400 fotografie per avere sempre sotto gli occhi la scena del mio romanzo. E infine arriva la scrittura, ma non ogni mattina come Moravia, dato che io insegno anche all’Università. La mia è piuttosto una scrittura “delle vacanze”: da 4 a 6 settimane per scrivere l’intero romanzo, con una dozzina di ore di lavoro al giorno, cioè circa 12 pagine. Ho bisogno di questa “metodicità concentrata”, altrimenti mi lascio distrarre dalle mille cose che amo: i viaggi, lo sci, la partita di calcetto, l’armonica a bocca. Ho bisogno di queste regole, altrimenti, seguendo l’ispirazione, inizierei un romanzo ogni giorno e non ne porterei a termine nessuno.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Purtroppo (o per fortuna) non ho rituali scaramantici, mi basta il silenzio più assoluto, se questo non c’è, metto le cuffie alle orecchie e mi isolo dal mondo esterno ascoltando tanghi e milonghe: la colonna sonora del mio scrivere è sempre quella di Richard Galliano.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

La mia formazione è maturata soprattutto nel campo della letteratura contemporanea, quindi i miei riferimenti nel passato si collocano, per la maggior parte, tra l’Ottocento e il Novecento. Volgermi indietro è il mio modo per trovare una scrittura di oggi senza correre il rischio del plagio. Quindi, mi trovo meglio nei panni di Wilde che in quelli di Marinetti, anche se l’unica tomba eccellente sulla quale mi sono fermato è stata quella di Camus a Lourmarin.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Mi sembra che, a parte rare e momentanee eccezioni, non siano tanto le città a creare occasione di confronto e di unione tra scrittori, quanto piuttosto le iniziative o i festival. Mi spiego meglio: un tempo, le case editrici svolgevano anche un compito di aggregazione degli scrittori: basta considerare il tipo di dibattito che si svolgeva all’interno dell’Einaudi degli anni ’40 e ’50 per rendersene conto. Questo aveva come conseguenza il fatto che il rapporto città – edito – scrittori fosse molto forte. Oggi, nella quasi totalità dei casi, ogni autore ha un contatto diretto con il proprio editore e la comunità degli scrittori si ritrova appunto in occasione dei festival letterari. Naturalmente, una parte del compito di animazione culturale e letteraria è ancora svolto dalle Università (io e Antonio Scurati, ad esempio, ci siamo conosciuti all’Università di Bergamo negli anni del dottorato), ma, lo ribadisco, il testimone pare essere passato a festival come quello di Mantova o come quello di Cuneo o ancora, per il poliziesco, come i festival di Lione (“Quai du polar”) o di Villeneuve lez Avignon in Francia.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

La letteratura era il mio desiderio, scrivere lo ha realizzato. Quando parlo con gli studenti dei corsi di scrittura, non smetto di dire che provare a scrivere, provare ad arrivare al romanzo vale veramente la pena.


Alessandro Perissinotto è nato nel 1964 a Torino. Ha pubblicato tre polizieschi storici con Sellerio e, a partire dal 2004, per Rizzoli, quattro polizieschi ambientati nella contemporaneità. Nell’ottobre 2009 la svolta: con “Per vendetta” abbandona gli schemi dell’indagine poliziesca senza per questo abbandonare il ritmo e le tinte fosche del noir.

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