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Intervista a Violetta Bellocchio

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Mia madre sostiene che ho sempre fatto dei bellissimi temi, ma non credo possa essere messa a verbale. Ho cominciato all'inizio dell'università, e non scrivevo fiction. Ci ho messo parecchi anni per avvicinarmi a quella forma e ancora di più per portare a termine quello che iniziavo. Da un certo punto di vista ho desiderato “scrivere” fin da adolescente – però si trattava di un'adesione abbastanza ingenua/aprioristica a un presunto stile di vita più che altro. Quindi direi cinquanta per cento caso fortuito e cinquanta per cento cieca determinazione.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Dipende dai casi. Riesco a vivere con il mio lavoro – anche se non mi arricchisco – e in tutto quanto riguarda la scrittura mercenaria la razionalità è incoraggiata quando non obbligatoria. E' anche vero che senza la minima scintilla istintuale il tempo che impieghi a entrare in un testo mentre lo lavori (sia d'occasione sia personale) aumenta in modo astronomico. Penso sia questione di prendere le misure a se stessi, e ognuno ha la possibilità di trovare quello che funziona nel proprio caso.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Scrivere tutti i giorni. Anche solo mezz'ora al giorno. Anche se non si produce nulla di che e anche se ci si sente scemi. A parte questo, ogni testo detta le sue regole. Il personaggio (o il contesto) chiede, e tu lo segui. Imporre un eccesso di rigidità soggettiva a qualsiasi materiale significa non amare abbastanza il processo. Secondo me, eh.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Fumo oltre misura. Sto cercando di tamponare la situazione con il secondo romanzo perché non credo che il parossismo da nicotina gli faccia bene. Testi diversi hanno una velocità diversa, e in questo caso è meglio se mi sgombro un po' di più la testa quando lavoro. Altrimenti finirei per imboccare la stessa strada di “Sono io che me ne vado” (libro scritto fumando, sfasciando due portatili e senza quasi mai sfilarmi gli auricolari dalle orecchie, n.b.) - e per quanto possa essere affezionata al primo romanzo questo si sta muovendo in un'altra direzione.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

E' sicuramente cambiata in positivo. Poter restare a lungo “dentro” un testo ha fatto di me un lettore molto più paziente. E più curioso. Non avverto più nessun senso di pseudo-competizione impossibile con nessuno scrittore, presente o passato – quel misto di angoscia e inadeguatezza che forse in alcuni anni mi rendeva un lettore naturalmente antagonista. Come se dovessi smontare e non assorbire, trattenere. Ma con poche eccezioni gli scrittori verso cui provo davvero una forma di gratitudine e/o sudditanza psicologica sono tutti viventi e in attività. Penso a Richard Price, a Tobias Wolff.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Non sono la persona più qualificata a rispondere a questa domanda. Io abito a Viareggio. Nemmeno: nell'entroterra di Viareggio. E mi sto preparando a cambiare nazione. Perciò...

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Non ho mai capito perché alcuni scrittori ci tengano tanto a dipingere la loro vita professionale come un'infilata di tragedia, lutto e scarnificazione. Sinceramente, non so se pensino di acquistare più credibilità autoriale in questo modo o se davvero per loro funzioni così. Io sarei ancora viva se non scrivessi – immagino – ma farei una vita infinitamente meno divertente. E non parlo della gratificazione legata a qualche buon risultato. Voglio dire che non ho mai provato una felicità così intensa come quando un personaggio mi si è presentato con chiarezza. O quando un personaggio che già c'era, ma era rimasto leggermente distante da me, ha messo sul tavolo qualcosa tramite cui si è creato un legame tra noi, una specie di riconoscimento. Forse dipende dal fatto che da ragazzina ero una disadattata. Adesso ho trovato qualcosa che mi assorbe al mille per mille. Sono fortunata ad averlo trovato.

La ringrazio e buona scrittura.


Violetta Bellocchio è nata nel 1977.
E’ stata pagata per fare cose diverse in posti diversi: i più duraturi o riconoscibili tra i suoi datori di lavoro sono “Rolling Stone”, Radio 2, “Grazia” e la Mostra del Cinema di Venezia.
Ha scritto racconti, gli ultimi compresi nelle antologie “Ho visto cose…” (Rizzoli 2008), “I confini della realtà” (Mondadori 2008) e “Voi non ci sarete - Cronache dalla fine del mondo” (Agenzia X 2009). Ha scritto anche la voce “Alligatore” per il “Dizionario affettivo della lingua italiana” (Fandango 2008).
Il suo primo romanzo, “Sono io che me ne vado”, è uscito quest'anno per Mondadori Strade Blu: http://www.sonoiochemenevado.it/

Sei estratti del secondo sono apparsi dal 1 settembre nell’edizione lombarda di La Repubblica, e sono reperibili qui:
http://milano.repubblica.it/speciali/settimanadautore

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