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Intervista a Silvia Santirosi

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Nella vecchia casa della mia nonna materna, in una stanza che non veniva mai aperta, c’era una scrivania su cui era poggiato l’oggetto dei miei desideri: una macchina da scrivere. Avevo cinque anni e non mi permettevano nemmeno di toccarla. Perché non sapevo scrivere. Perché ero piccola. Oggi, quella stessa macchina da scrivere, fa bella mostra di sé nel mio salotto.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Il pendolo di Schopenhauer oscillava tra dolore e noia. Quello del “mio produrre scrittura”, per usare la sua espressione, oscilla incessantemente tra ragione e istinto. Ho provato ad analizzare retrospettivamente il mio modo di lavorare. E mi sono accorta di non saper dare una risposta più definitiva, più stabile.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Lei parla di stile. Preferisco un’altra parola: carattere. Il mio si declina in molti modi. Per quanto riguarda la scrittura, anche se la materia prima è la stessa - parole, pensiero, idee - l’immaginazione usa strumenti, tempi e spazi diversi se lavoro a una poesia, a un racconto per adulti o a una storia per bambini. Anni per il libro di poesie. Un racconto può nascere in un pomeriggio e venir riscritto mesi dopo, anche se magari l’intuizione dell’idea narrativa risale a molto tempo prima. E così via.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Della penna. Qualunque cosa scriva, inizio sempre su uno dei miei innumerevoli quaderni. O su un qualunque pezzo di carta di fortuna. Perché magari sono al bar e mi capita di ascoltare uno scambio di battute interessante. In questa prima fase di raccolta - diciamo così -, ho bisogno di un contatto fisico. Poi viene il momento della casa, del computer e di tanto, tanto silenzio. Quando riscrivo, torna la penna.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Scrivendo del lavoro della vita interiore, Luis-Ferdinand Céline si chiedeva: «che possono mai i maestri e il loro sapere per questa gestazione spirituale, questa seconda nascita, dove tutto è mistero?». E la risposta suonava: «quasi nulla. L’essere che giunge alla coscienza ha come gran maestro il Caso. Il Caso è la strada». Per me, Caso significa anche incontro non predeterminato con un particolare scrittore (o scrittrice) in un dato momento. Da sempre il mio rapporto con i grandi scrittori – e non solo del passato – è stato di confronto serrato, costante e disordinato. Nessun ossequioso rispetto, nessun rifiuto aprioristico.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Di sicuro le nuove tecnologie offrono possibilità inedite e tutte da sperimentare a chi non vive le molteplici incarnazioni del “centro”. Detto questo, penso che il punto sia sempre come si desidera vivere la propria vita. Anche di scrittori: isolamento o mondanità salottiera è una scelta.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Scrivere non è un accidente – nel senso aristotelico del termine – né un attributo, men che mai strumentale, di un essere. Di un fare. Scrivo per dare forma a un mondo. Per comprenderlo. Per permettere alla mia testa di farsi mano, di avere presa. Se sia solida o meno, questa è un’altra storia.
Per quanto riguarda il desiderio di felicità, le parole non hanno potuto nulla se non, forse, consolare.

La ringrazio e buona scrittura.

Grazie a lei per il suo contributo e impegno al dibattito e alla circolazione delle idee.


Silvia Santirosi, classe 1981. Giornalista culturale (Il Mattino, Via Po’), scrittrice e illustratrice. Ha pubblicato racconti (Il cavaliere e il bambino, «R!» n.14, 2003; In soffitta, «R!» n.15, 2004; Il più gran nome di Dio, Visiorama, LaScimmia edizioni, 2004; Per non vedere, Scrivimi di questo tempo, Edilet 2008) e un libro di poesie (Istantanee, Edilet 2008). La fiaba per bambini “Capitan Barbabrizzola e il salvataggio del naso” è stato finalista alla 5ª Biennale “Premio nazionale letteratura per l’infanzia Sardegna”. Con la sceneggiatura Un altro giorno è una dei vincitori del concorso “Giovani Talenti italiani 2007”. Ha collaborato al film Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì.
http://www.santirosi.blogspot.com

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