Intervista a Rosella Postorino
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Io farei una distinzione tra inclinazione, desiderio e volontà.
Avendo come tutti imparato a disegnare prima che a scrivere, mi sono legata subito al mezzo espressivo del disegno, quindi anche anni dopo aver imparato a scrivere continuavo a rispondere che da grande avrei fatto la pittrice. Ciononostante a 6 anni scrivevo poesie che leggevo a mia madre (era molto sincera: di solito non le piacevano), a 7 usavo un quaderno trovato nei biscotti Granturchese per realizzare il mio magazine, dove apparivano mie ideali interviste a personaggi famosi, come Miguel Bosé, ma anche mie favole, mie filastrocche e naturalmente miei disegni a fumetti, a 8 scrivevo pièce teatrali che facevo
recitare ai miei cugini davanti ai nostri genitori (davvero trame senza capo né coda) e in generale giocavo molto da sola inventando storie con diversi personaggi interpretati tutti da me, passavo i pomeriggi a muovermi nel cortile parlando a voce alta, lo facevo ogni sera nella vasca: costruivo dialoghi, insomma. Questo però non so se significhi avvicinarsi alla scrittura. Per me significa inclinazione, ma è una cosa che molti bambini hanno e non tutti poi da grandi scrivono. Mancava il desiderio.
Il desiderio è arrivato nella primissima adolescenza. Prima è arrivato in forma latente: avevo quaderni pieni di poesie, di prime pagine di romanzi, addirittura il progetto di un saggio teologico (volevo scriverlo a 12 anni, ero molto credente allora), ma non facevo caso a questa abbondanza di scrittura nella mia vita.
Poi è arrivato con la violenza con cui arriva il desiderio quando si manifesta. Dev'essere stato grazie all'incontro con alcuni libri. Il diario di Anna Frank, che avevo letto a 10 anni, "Un uomo" di Oriana Fallaci, a 13, Marguerite Duras a 16.
Per anni avrei taciuto di voler fare la scrittrice, perché un conto è
desiderare una cosa, un conto è pensare di esserne degni. Poi ero
pigra, avevo paura, o forse semplicemente "incubavo". È stato a 23
anni che l'ho deciso. Ho deciso che ci avrei provato, che non potevo
farne a meno. È lì che il desiderio è diventato volontà, e quindi
impegno, disciplina, fatica, frustrazione, anche. Per me 23 anni è
stata la soglia – improvvisa – dell'età adulta. Quando si cresce fino
a spaccarsi. È stato esattamente lì che l'ho saputo: avrei scritto.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
C'è una parte di razionalità che lavora mentre non si scrive
fisicamente, ma si sta dentro una
storia. Intendo dire che quando si sta scrivendo un romanzo o si ha
intenzione di scriverlo, si sta dentro
quell'atmosfera come se fosse un luogo, ovunque ci si trovi. Ecco, lì,
mentre i pensieri passano e si cerca di organizzarli, mentre si
prendono appunti (io non so fare schemi, scalette, mi annoiano, prendo
appunti sconclusionati su un quaderno o su scontrini e cartacce che
perdo, oppure li prendo in mente, ma rischio spessissimo di
dimenticare), si cerca probabilmente di dare forma al materiale che
gira per la testa. Questo forse ha in qualche modo a che fare sia con
l'istinto sia con la razionalità.
Quando si scrive, nel senso che ci si siede davanti al computer, per
me prevale la parte dell'istinto. È il momento cruciale, è il momento
in cui scrivo davvero, in cui si producono associazioni impreviste che
arrivano proprio e soltanto da quel gesto fisico di scrivere, dove
immagini ne tirano delle altre e le pagine – le storie, i personaggi –
si costruiscono proprio perché è il linguaggio che le genera. È solo
quando mi confronto con il linguaggio, quando lo uso per creare file
di parole che si chiamano frasi, è lì che la storia prende forma come
in un circolo virtuoso, imprevedibile. Se non fosse in certa misura
imprevedibile, io mi annoierei.
Esiste poi la lunghissima ossessiva fase della revisione, e anche
questa ha a che fare con la razionalità. Può durare mesi, moltissimi
mesi, per me. Lì si smonta, si rimonta, si tolgono pagine, si
sente il suono del libro, spesso una
direzione, unmovimento di cui non
si era consapevoli prima, e lo si asseconda aggiungendo scene,
sviluppando certi personaggi piuttosto che altri... Questo genera
nuovi rimandi e sensi, che a loro volta modificano il percorso
dell'ennesima revisione... Insomma, la scrittura si autofeconda,
letteralmente. Ed è per questo che ha qualcosa di magico.
In fondo, credo che non essendoci soluzione tra istinto e razionalità
nella mia vita, non ce ne sia nemmeno nella scrittura.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Io passo molti mesi senza scrivere. Non considero la scrittura come il
mio lavoro, ma come il mio spazio di libertà. Perciò scrivo solo nel
weekend, se non ho da lavorare, e solo quando sono già dentro un
romanzo. Il metodo è che posso non scrivere per mesi. Poi, quando
inizio un romanzo, se il lavoro me lo consente, ogni sabato mi metto
lì fin dalla mattina, cascasse il mondo, e ci resto finché ne ho forza.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Per scrivere ho bisogno di una finestra. E di una stanza con la porta chiusa.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Più vado avanti e più li leggo. Non ho nessuna forma di iconoclastia
verso di loro, anzi. Non è l'aspetto dell'"altare dell'arte" che mi
interessa, nella letteratura. Se ci sono autori che hanno detto cose
che mi sembrano importanti e in un modo che mi sembra ammirevole, sono
soprattutto felice che siano esistiti. Il rapporto non è con il
"nome", è con le storie, con la scrittura. Ci sono libri considerati
grandi che non sono riuscita ad amare: non ci sputo sopra né li osanno
per prassi. Aspetto. Forse un giorno li amerò. Nel tempo i miei gusti
sono cambiati.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Credo che si formino relazioni sulla base di diversi fattori: la
condivisioni di idee sulla letteratura e sul mondo, l'età anagrafica,
la provenienza geografica (pensiamo al nutrito gruppo di scrittori
napoletani, oggi), l'editore per cui si pubblica... Non mi sembra che
ci sia attualmente in Italia una città precisa in cui convergono, si
trovano, collaborano gli scrittori.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Scrivere non può che migliorare la vita di chiunque. Pubblicare,
invece, non per forza: scrivere per pubblicare è un'arma a doppio
taglio. Pubblicare significa far conoscere quello che si scrive a più
persone possibili, confermare la presunzione di averne diritto,
significa essere pagati per quel che si scrive: questo non dovrebbe
che migliorare le condizioni di vita. Eppure non è così. La sorpresa è
che non rende più felici.
Forse perché il libro diventa nostro malgrado una merce, è soggetto a
regole di mercato che ignorano l'investimento emotivo temporale e
intellettivo che ci è costato, visto che non è quello il punto. Forse
perché il libro si stacca da te e diventa altro, un prodotto separato,
gettato nel mondo, ed è il mondo così com'è che ne determinerà la
sorte, nel bene come nel male. Io però credo che sia soltanto perché
nulla è paragonabile alla felicità che si prova quando, seduto alla
tua scrivania, hai appena finito di scrivere una scena, quando una
cosa che non esisteva prima adesso esiste, è sulla pagina, è stata
creata. È quello l'unico vero stato di grazia.
La ringrazio e buona scrittura.
Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978) è cresciuta a San Lorenzo al
mare (IM), ma vive e lavora a Roma. Il suo primo romanzo, "La
stanza di sopra" (Neri Pozza Bloom 2007), ha vinto il Premio
Rapallo Carige Opera Prima e il Premio Città di Santa Marinella. Nel
2009 ha pubblicato per Einaudi Stile libero il romanzo
"L’estate che perdemmo Dio" (Premio Benedetto Croce), e
ha scritto una pièce teatrale dal titolo "Tu (non) sei il tuo
lavoro" su commissione del Napoli Teatro Festival, edita da
Bompiani nel volume collettivo "Working for Paradise".
Collabora con le pagine romane del quotidiano «la Repubblica» e con
«Rolling Stone».
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