Intervista a Rita Charbonnier
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Se parliamo di scrittura letteraria e pubblicata, alla bella età di quarant’anni! Prima avevo scritto sceneggiature e articoli su riviste, soprattutto di teatro. L’idea di scrivere romanzi mi aleggiava nella mente, ma mi mancava il coraggio di cimentarmi. La spinta definitiva me l’ha data, più che il caso, la disperazione. Avevo provato per anni a promuovere un progetto cinematografico basato sulla vita della sorella di Wolfgang Amadeus Mozart e nonostante il mio soggetto avesse vinto un premio europeo, le cose arrivavano sempre a un passo dal quagliare e poi andava tutto a monte. Allora ho deciso di elaborare un romanzo sull’argomento, con il seguente spirito: se anche questa iniziativa non va in porto, vuol dire che non era destino; io ho fatto tutto quel che potevo. Per fortuna le cose sono andate bene e il libro è stato pubblicato e tradotto in varie lingue. Già mentre lo elaboravo, d’altra parte, progettavo di proseguire su questa strada, scrivendo romanzi le cui protagoniste si trovano a fronteggiare – e superare – grandi avversità.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Per quanto mi riguarda, le due componenti sono intrecciate e difficilmente separabili. La prima intuizione attiene senz’altro alla sfera emotiva; a volte si tratta di un’immagine, a volte di una possibile dinamica relazionale, a volte di un argomento che mi sembra importante. Poi, nel momento della strutturazione della storia e dell’identificazione dei temi centrali, subentra un atto di tipo più logico, che identifico nella ricerca di una relazione causa-effetto tra gli eventi. E ancora, quando si tratta di scrivere le pagine immagino si debba soprattutto lasciarsi andare, per poi rileggere, limare, consapevolizzare. In generale non credo molto nella dicotomia tra sentimento e ragione; penso che la vita sia un continuo lavoro di gestione di spinte di diversa provenienza. Non so se sono sempre in grado di identificare quali provengano dalla sfera emotiva e quali dalla sfera intellettuale; nella maggior parte dei casi si tratta di un misto.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Per ottenere un minimo di risultato un qualsivoglia metodo è indispensabile. Moravia era un grandissimo scrittore e anche per questo viveva di letteratura; poteva quindi dedicare un’ampia parte della sua giornata, sempre la stessa, alla scrittura. Naturalmente per la mia piccola persona, nonché per la maggior parte degli scrittori che conosco, non è così. Bisogna svolgere un altro lavoro per vivere; magari attinente, o magari completamente diverso. Di conseguenza gli spazi per scrivere sono circoscritti a un periodo sabbatico, o di vacanza, o a un momento specifico che si riesce a ritagliarsi. Per quanto mi riguarda, io passo più tempo a riflettere su cosa scrivere che non a scrivere. Posso impiegare anche un paio d’anni, a spizzichi e bocconi, a fare ricerche di tipo storico ma soprattutto a interrogarmi sull’evoluzione psicologica dei miei personaggi, finché non ho un quadro chiaro. Quindi arriva il tempo della scrittura – normalmente nei mesi estivi – e in quel periodo è una “full immersion” di 8, 9, anche 10 ore al giorno…
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Fino ad oggi non sono riuscita a fare a meno dell’isolamento. Nei periodi intensi di scrittura mi sono sempre chiusa in casa, con il telefono staccato e la connessione Internet perennemente spenta. Non volevo vedere né sentire nessuno. Adesso però sto cominciando a pensare che vi fosse qualcosa di autopunitivo in questo modo di procedere e che, nell’inseguire il desiderio di scrivere per vivere, stessi in realtà smettendo di vivere per scrivere. Quindi cerco un minor rigore e un’attitudine che non mi impedisca del tutto il contatto con il mondo. Per il resto, so che alcuni autori amano scrivere ascoltando musica; per me la musica rappresenta invece una distrazione, nel senso che rischio di perdermi tra le note e dimenticare l’esistenza delle parole. A meno che quel che sto scrivendo non riguardi uno specifico brano musicale; a meno che, in sostanza, io non stia cercando di trasferire l’esperienza della musica sulla pagina scritta. In quel caso programmo la ripetizione continuata del brano musicale sullo stereo, mi siedo al pianoforte e suono qualche nota, poi torno al computer e butto giù a ruota libera le immagini visive ed emotive che mi appaiono davanti agli occhi… e spesso mi sciolgo in lacrime.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Più che con Marinetti, io sono con Oscar Wilde – un grandissimo ingegno che avrebbe potuto lasciarci molte altre splendide opere e che invece abbiamo perso precocemente per l’ipocrisia e la stupidità degli umani. Proprio di recente ho visitato il cimitero acattolico di Roma dove riposa John Keats e, se non mi sono inchinata davanti alla sua tomba, mi sono comunque profondamente commossa. Ho immaginato che il suo bruciante spirito poetico aleggiasse ancora in quel luogo – e come potrebbe non essere così, visto che la sua lapide riporta soltanto le parole “Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua”? I grandi artisti del passato sono numi tutelari, geni che continuano a proteggerci, figure fondamentali di riferimento senza le quali la vita di ognuno di noi, oggi, non sarebbe ugualmente ricca.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Le grosse case editrici sono tutte a Milano, mentre a Roma negli ultimi anni sono sorte diverse realtà molto interessanti… gli scrittori, a quanto ne so, abitano un po’ dappertutto. E ogni tanto si incontrano in qualche fiera o festival, ma generalmente non mi sembra che facciano troppo corpo tra di loro. Quando il mio primo romanzo è stato pubblicato negli Stati Uniti sono entrata improvvisamente a far parte di un club, il che mi ha lasciata stupefatta: il club delle autrici di romanzi storici che parlano di donne. Una scrittrice di bestseller (Michelle Moran) ha un blog nel quale ospita interviste ad autrici, e mi ha intervistata. Un’altra scrittrice (Susanne Dunlap) mi ha intervistata per una rivista; ci siamo incontrate, quando sono andata a New York, e lei mi ha dato una grossa mano per una ricerca. Gli scrittori americani usano Facebook per mantenere i contatti tra di loro e sostenersi a vicenda; noi per farci pubblicità. Non è curioso?
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Scrivere per me è anche uno strumento per fare il punto su me stessa. Mi sono resa conto, talvolta a posteriori, che l’evoluzione psicologica delle mie protagoniste aveva molto a che fare con la mia personale evoluzione. Alcuni anni fa, in un periodo nel quale ero piuttosto depressa, vidi un filmetto del quale non ricordo neppure il titolo. Non c’erano grandi attori, registi o sceneggiatori; era un film semplice, che raccontava in modo onesto la storia di un personaggio che aveva un problema simile al mio. Mi identificai nel protagonista e alla fine della visione mi sentii confortata. E allora capii non solo che volevo scrivere, ma anche perché volevo farlo: per creare, nel mio piccolo, storie nelle quali altre persone potessero rispecchiarsi. Per ottenere questo risultato, e cioè condividere efficacemente emozioni e pensieri, è inevitabile interrogarsi su di sé. Solo in questo modo si può arrivare a toccare quella parte profonda che ci accomuna tutti.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie a lei per le belle domande!
Rita Charbonnier è nata a Vicenza nel 1966. Il suo primo romanzo, “La sorella di Mozart” (Corbaccio, 2006), è stato tradotto in inglese, francese, tedesco, spagnolo e olandese e pubblicato in 12 nazioni, tra le quali gli USA. Il secondo, “La strana giornata di Alexandre Dumas”, è uscito nell’aprile 2009 per i tipi Piemme. Il suo saggio “Donne, romanzi, fantasie. Divulgare la musica di Mozart attraverso un romanzo” è stato pubblicato all’interno del volume “Perti, Martini e Mozart” curato dalla R. Accademia Filarmonica di Bologna (Pàtron Editore, 2008).
Diplomata nel 1988 presso la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, giornalista pubblicista dal 1998, ha frequentato il Corso di formazione e perfezionamento per sceneggiatori della RAI. Ha svolto un’intensa attività di attrice e cantante in teatro per poi dedicarsi prevalentemente alla scrittura.
Sito: http://www.ritacharbonnier.com/it
Blog: http://ritacharbonnier.blogspot.com/
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