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Intervista a Paolo Di Paolo

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Come accade a molti, mi sono avvicinato alla scrittura prima di saper scrivere. A scarabocchiare (a fingere di scrivere!) ho cominciato molto presto, riempiendo fogli bianchi e agende. Poi, mi viene in mente che intorno ai sette anni – su una spiaggia, d’estate – immaginavo, sempre con una vecchia agenda tra le mani, forma e contenuto del mio primo libro. Un’inchiesta sull’esistenza della Befana. I primi veri racconti sono venuti fuori nell’estate dopo la maturità liceale – la più libera e spensierata che abbia vissuto finora. È stato un caso? Non so. Dovrei chiedermi se lo è stato l’amore per i libri, per la lettura, senza il quale non avrei mai desiderato scrivere.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

La parola consapevolezza mi piace molto. Non ho il mito dell’ispirazione. Certo, c’è qualcosa di inspiegabile nel talento, che è appunto anche istinto, spinta irrazionale. Ma credo che nel più dei casi sia necessario educarlo. Nell’ambito della scrittura, attraverso letture su letture, esercizio. Giornate spese anche solo a pensare, a mettere sotto processo i propri limiti. L’allegra inconsapevolezza con cui molti scrivono non mi convince. Pensano di rifarsi, che so, a Rimbaud, ma il genio è cosa davvero rara.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Mi piacerebbe avere la disciplina di Moravia e degli scrittori che ogni giorno riescono a sedersi alla scrivania. Sono invece incostante, impaziente. Concentro la scrittura in brevi e estenuanti periodi. Lavoro in spazi sottratti ad altro. Forse anche perché al terzo giorno chiuso in casa davanti al computer – senza il rumore, le voci degli altri – vado in crisi.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Non posso fare a meno del computer. Appartengo alla generazione che fatica a scrivere a mano. Prendo molti appunti, a mano. Ma il computer è quasi una protesi del mio cervello, non riuscirei a scrivere niente di compiuto senza un foglio di Word davanti. E poi, molto silenzio intorno. Preferisco scrivere di pomeriggio, dopo il caffè. La mattina sono troppo inquieto.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

E’ un rapporto necessario, indispensabile. Sottrarsi a un confronto con la tradizione letteraria non porta da nessuna parte. Ecco, sempre di consapevolezza si tratta. Scrivo perché altri prima di me hanno scritto. E scrivo perché altri intorno a me scrivono. Mi è sempre piaciuto indagare nelle vite degli scrittori, intuire ciò che li ha portati a diventare ciò che sono o sono stati. Mi è sempre piaciuto mettermi a dialogo con loro (ecco la ragione dei diversi libri-intervista con scrittori che ho pubblicato). Penso a un libro come Voci di Frederic Prokosch, bellissimo. In quelle pagine lo scrittore americano va a stanare i suoi miti letterari: Virginia Woolf, T.S. Eliot… Ogni incontro è un “contatto magico” – così lui lo definisce: uno strano cortocircuito tra la propria passione e quella del maestro che ha davanti. Ho l’impressione che oggi si fatichi un po’ a maneggiare – parlo per l’ambiente letterario, ma forse è un discorso più ampio – parole come magistero, ammirazione. E invece, come tra pittori o falegnami, senza essere passati da una bottega, senza averla inventata nella propria testa, è difficile andare lontano.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Sicuramente, se ragioniamo sui numeri, molti scrittori italiani affermati vivono nelle grandi città (Roma e Milano in particolare). E molti giovani aspiranti si spostano dalle loro città d’origine verso luoghi che offrano maggiori opportunità. È sempre stato così. Anche il giovane provinciale Lucien delle Illusioni perdute di Balzac correva verso Parigi in cerca di affermazione! Però – e suona spaventosamente banale dirlo – Internet ha sicuramente accorciato molte distanze. In ambito letterario, blog e riviste online consentono a chiunque, dovunque, di farsi notare.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Spesso mi sono chiesto come sarei, come sarebbe la mia vita senza la scrittura. A volte, mi sono risposto che sarebbe senz’altro migliore. Ma che senso ha questa risposta? Sarebbe un’altra vita, non la mia. Se avessi potuto fare a meno di scrivere, l’avrei fatto – credo. Quanto ai desideri non so, ho fiducia che quelli possano realizzarsi fuori dalle pagine scritte.

La ringrazio e buona scrittura.


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Giulio Perrone

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