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Frammento Nove: immagini, italiani e arte

Rudolf Steiner asseriva che “è un’opinione del tutto fallace, legata a casualità, il dichiarare che l’immagine che si presenta in un determinato momento è la cosa”.
Oggi, grazie o a causa dei mezzi di comunicazione strutturati e differenziati e numerosi, è lecito sostenere che l’utilizzo diffuso delle immagini ha moltiplicato le percezioni, i confronti fra percezioni.
Che cosa è la cosa di cui si ha un’immagine?

Se prima della contemporaneità già era una tematica filosofica complessa, si può affermare con sicurezza che noi, noi cittadini del 2009 con a disposizione giornali-televisione-radio-internet, siamo di fronte a un aumento continuo delle immagini, su qualsiasi cosa. Accanto a coloro che reputano il processo in corso indispensabile per la disponibilità di più critiche e scambi intellettuali e informativi, vi sono altri che da anni avvertono l’opinione pubblica dei possibili rischi, fra i molti, la relatività dell’autorevolezza di una tesi. Se, semplificando con coscienza, tutti possono dire tutto, nessuno si può ergere ad arbitro di alcunché, sembrerebbe. Basti pensare, rispetto a un singolo evento, le migliaia di opinioni che imperversano su internet grazie ai siti, ai blog o ai forum. Qual è il confine fra un’opinione seria, analitica, precisa e un’opinione grossolana, superficiale e inutile per la comprensione? Il nostro paese è già colpito da un certo analfabetismo di ritorno, quanti possono essere coloro in grado di distinguere tale confine senza pregiudizio o senza incorrere in sbagli palesi?. Questa la prima questione che presento poiché io stesso percepisco di avere enormi dubbi su dove sia talvolta il confine.

La seconda. Gli ultimi decenni hanno visto l’Italia appropriarsi di fette di benessere prima impensabili, se è vero che le difficoltà attuali dei precari sono drammatiche, è altrettanto vero che alcuni diritti sindacali, alcune libertà del singolo individuo, alcune tutele per ciò che concerne la salute erano un sogno inimmaginabile in un tempo non remoto. I passi dello sviluppo sociale italiano sono lenti se li si confronta con altri paesi europei, tuttavia del tutto manifesti appena si visita un paese povero del terzo mondo o perfino dell’est Europa.

La prima questione influenza la seconda. Per motivi che a me appaiono sempre misteriosi, l’italiano medio parla spesso malissimo del proprio paese, eccetto per la cucina, l’arte, il mare e poche altre cose. Non riusciamo mediamente a essere obiettivi contestualizzando con una visione d’insieme. Vorremmo, dati i nostri grandiosi avi romani o geniali artisti rinascimentali, soltanto per fare due esempi lampanti, essere sempre i primi in tutto, in tutti i settori.
Non c’è pace se il cinema si è spostato in California, giacché quello italiano del Novecento è e rimane il migliore. Non c’è pace se la genialità tecnologica s’è spostata in India o in Giappone, giacché Fermi e Marconi e altri sono italiani. Non c’è pace se taluni diritti sindacali trovano la migliore efficienza in Danimarca o in Svezia, giacché il diritto romano è nato qui, accidenti.

Soffriamo come popolo di un narcisismo nostalgico, di una grandezza che dovrebbe essere evidente a tutti, nel nostro immaginario, eppure, a ben guardare, nonostante l’Italia sia un luogo invidiabile dove vivere per molti poveri del mondo, le graduatorie di ogni genere sulla qualità della democrazia e della vita vedono il nostro paese sempre più lontano dai primi posti.
Non è che siamo narcisi e nostalgici soltanto, nuove forme d’imbarbarimento della società sono oramai presenti in quantità preoccupanti. E le immagini – prima questione – confondono, alterano, distraggono. Il confine sopraccitato è sempre più diafano. Più opinioni, più immagini, più confusione forse. Non si è quasi più sicuri di nulla. Una precarietà esistenziale.
All’interno di questo quadro, che cosa può l’arte? Quali ruoli dovrebbe avere? Ne riparlerò, fra dubbi, tentativi di analisi e passi a tentoni sempre più instabili.

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