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Scrivere un romanzo in 100 giorni - Lezione 25

Primo quarto delle cento lezioni, oggi vi propongo una cosa diversa, vediamo se eravate attenti.
Leggete una breve parte d’un racconto e sulla base di quanto avete assimilato, sferrate un attacco, distruggetelo di critiche, individuate gli errori.
Dovete divenire consapevoli delle vostre capacità letterarie.
Ho scritto questo racconto qualche anno fa (in fase ribelle), l’ho infarcito ora di debolezze affinché voi possiate divertirvi a trovarle. Domani svelerò il mio punto di vista, intanto voi trovate, ripeto, le debolezze.
Se osservate gli errori altrui vi abituate a trattare anche il vostro romanzo con un certo distacco necessario.


Era un pomeriggio qualunque, stavo ascoltando De Andrè, cercando di non pensare; vezzeggiato dalle magiche parole del cantautore, perchè a volte è necessario non pensare, perchè capita di non voler vivere riflettendo, mi guardai nello specchio che avevo giusto davanti a me, ero lì. L’effetto immediato e dirompente fu di girarmi, mi vergognavo. Non mi riconoscevo. Mi ero perso.
Quale nefasta sensazione emergeva in quei momenti dolorosi; quale irriconoscibile e ineludibile consapevolezza avevo coltivato negli ultimi anni. La povertà mia mia era tutta interiore, spirituale. Era lontano il periodo in cui avevo abbandonato chiese e predicatori,mi ritrovai solo ad esplorare. Nessuna verità; nessuna certezza; nessun libro sacro. Solo. E non è stato semplice, per nulla. Poiché se si decide di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con la tradizione è necessario intraprendere sentieri impervi, all’inizio il senso di smarrimento, è forte. Per colmare le nuove paure si abusa delle distrazioni, non ci sono più leggi morali, o meglio, ne rispettiamo altre o le vecchie sono indebolite, ci sentiamo padroni delle nostre esistenze, ma con una preoccupazione che si maschera con il coraggio e la superbia.
Un giorno un’amica mi chiese: «Sei sereno?».
«Sì, per fortuna» mascherando un’istinto di persuasione che avrei voluto gettargli contro.
«Ah!» mi disse «Mi sembrava che tu fossi in de-fase».
La de-fase faceva parte del nostro gergo, significava che il periodo nero era del tutto evidente, senza teorie replicanti e reiterate, una merda di periodo insomma. Se c’era un argomento che mi portava alla ferocia dialettica allorché stavo in de-fase era la religione.
«Ma perché non ricominci a venire a messa?» mi disse Gessica.
«Dai, non rompere, lo sai come la penso, non mi piace chi non ragiona con serietà sulle parole, sui significati, sulla verità, li lascio volentieri a te i parolai dell’aldilà».
«Un po’ di rispetto Fabio!» quasi bramì l’amica.
«Oh scusami, rifaccio, adoro chi non ragiona sulle parole, sui significati, sullaverità, spegnendo così il cervello, annientandolo, meglio?».
Che cosa dovevo rispondere? E mi capitava di farlo con mamma, con nonna,con gli amici, con tutte le pecorelle cristiane che la Domenica resuscitavano se stesse, varcando la porta delle milioni di chiese sulla terra, alla ricerca di purezza, di pentimento, di perdono, e magari credevano pure di conquistare un posto nell’aldilà più comodo, privilegiato, nella tribuna d’onore del calcio paradisiaco, non nella curva sud vicino ai violenti o, peggio ancora, fuori dal stadio, fra gli esclusi dalle carezze spirituali divine. Non riuscivo più a credere a certe panzane:una donna che rimane vergine dopo un parto, un uomo che cammina sulle acque, un dio che si divide in tre dei e magari incontrandosi discutevano sulle proporzioni reciproche, dodici apostoli maschi e poi parlano di rispetto delle donne… «Ma che cosa c’entrano questi discorsi?» mi dicevano, per un cristiano c’è sempre qualcosa che non c’entra pur di non affrontare con serietà un argomento che potrebbe metterlo in discussione. Quanto ci vuole ad asserire che se ciò che loro chiamano Dio umano, cioè Gesù, ha scelto dodici protetti soltanto maschi sono due le cose: o non sopportava le donne o aveva tanta simpatia per gli uomini, e mi fermo, non vado oltre, per carità, mi sembra già di sentirli: «Irrispettoso! Maleducato! Bestemmiatore!» e bla bla bla, tanto hanno sempre ragione loro, sono nella verità, chi li può distogliere da un’ottusa convinzione di sapienza.
E quanta acredine contro gli atei: «Non credi in niente, sei come una pietra!», quando erano leggeri. Allora mi capitava di replicare: «Scusami, che cosa vuol dire essere ateo per te?».
«Non credere in niente, un senza Dio, ovvi no?» mi si diceva. ‘Certo’ pensavo, e poi: ‘Magari se fossi un pò meno ignorante ti renderesti conto delle stronzate che hai nella testa’. Perché essere atei significa essere senza dio, credere in nulla, secondo loro.
«Scusami ancora, ma tu credi in Belzebù?» chiedevo.
«No, che cose stupide mi dici!
«Quindi sei atea verso Belzebù, non ci credi?».
«Esatto!».
«Capisco, e credi in afrodite?».
«Che dici Fabio? Secondo te? Certo che no, non credo in Afrodite, sono divinità dell’antica Grecia quelle…».
«Ah, sicuro, hai ragione, quindi sei atea verso Afrodite, non ci credi se ho capito bene».
«Hai capito bene, non ci credo».
«E toglimi una curiosità: credi nel vitello d’oro come chi accompagnava Mosè fuori dall’Egitto?».
«Dai basta, dove vuoi arrivare?» esclamò Gessica.
«Semplice: tu, sei atea verso decine e decine e potenzialmente centinaia e migliaia di divinità e soltanto perché credi in una, cioè Gesù, ti senti credente, mentre io che non credo neppure in quella oltre alle altre migliaia devo sentirmi colpevole secondo te di ateismo?».
La gente non riflette sulla religione, considera scontate certe questioni certe, solo perché l’eredità millenaria ha un fascino incredibile, solo perché la propria famiglia la considerava giusta, solo perché si ha paura di mettersi davvero in discussione anche a livello spirituale.
Quel giorno, ascoltando De André, volevo non pensare ma con un acribia degna dell’orologio di Kant continuavo invece a soffermare la mente sui miei simili, compagni di viaggio, e mi sentivo disarmonico nella società. Mi sentivo solo e perso. Consapevole, questo sì, ma solo e perso. Ne era valsa la pena?Ero più sereno esplorando territori sconosciuti?
La sera prima di quel maledetto giorno avevo avuto una discussione con Paolo, amico fin dall’infanzia e catechista presso la chiesa di San Giovanni. Certo, diversi. Avevamo preso percorsi differenti. Mi scappò una bestemmia, senza pensarci, non usavo tale linguaggio, non faceva parte delle mie corde vocali, ahimé capitò. Mi fece una filippica infinita sul senso dell’ofesa, del rispetto e bla bla bla. Perciò, spinto appunto verso la ferocia dialettica gli dissi:
«Sono dieci minuti che mi rompi con queste scene da maestrino e non ti accorgi di quanto voi cristiani trattiate il linguaggio con una vergognosa arbitrarietà…».
«Che intendi dire? curioso.
«Nel momento in cui io accosto in questo ordine le due parole cane e dio, tipo dicendo bello quel cane, dio lo ha creato, sembra che vadi tutto bene, se dico lo ha creato dio quel cane, già inizi ad irrigidirti, se dichiaro dio cane, apriti cielo, sono un maleducato irrispettoso!».
«Dipende dal contesto, lo sai, da come formuli le frasi» replicò l’amico
«Il contesto, voi siete i primi che non vi curate di capire che la bibbia e tante delle stronzate che ci trovi dentro sono legate al contesto di ignoranza di duemila anni fa e poi voi, oggi, nella contemporaneità, vi preoccupate del contesto, delle parole, e che dire delle parole ambigue, non chiare del vostro testo sacro? Quando vi serve precisare il senso del contesto spada tratta, quando invece non vi fa comodo, meglio ignorarlo, ma vi rendete conto di essere di una ignoranza di metodo che farebbe rabbrividire un qualsiasi scienziato o filosofo di livello mediocre?».
«Senti Fabio, ci vuole fede».
«Ovvio, me l’aspettavo, fate sempre così, quando il vostro cervello comincia a fumare,avete un ottima soluzione: lo buttate direttamente nel cesso per non usarlo, complimenti!».
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