Intervista a Marco Mancassola
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Appartengo al partito di quelli che non credono al caso. Scrivo perché scrivere ha una funzione e io sono chiamato a questa funzione – come altri sono chiamati ad altre funzioni. Comprendere il come e il perché di questa funzione, ovviamente, è uno dei nodi più difficili della faccenda. Ho iniziato il primo romanzo a sette anni, lo lasciai incompiuto, prima o poi lo riprenderò. Riguardava un principe innamorato di una sirena impossibile, e amato a sua volta da un’altra ragazza. A sette anni mi interessavano gli amori impossibili e i triangoli. Il primo testo compiuto venne molto dopo, un racconto che scrissi a diciotto anni e che adesso non ho idea di che fine abbia fatto.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
In scrittura, istinto e progetto sono la stessa cosa. Se non sono la stessa cosa, ho l’impressione voglia dire che non si è ancora scrittori veri.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
C’è un modello ideale di giornata che ha ritmi monacali, ci si sveglia all’alba e si va a correre al parco nella prima luce del giorno, si torna a casa e si fa colazione e si medita un poco oppure si legge Whitman oppure Proust o quant’altro, e infine si è pronti a scrivere e lo si fa fino a pomeriggio inoltrato e soltanto allora si accende il telefono o si guardano le mail e si considera l’esistenza del resto del mondo. Questa è la giornata ideale. Vivo in questo modo quando sono molto concentrato, quando incombe la scadenza per la consegna di un testo, quando la confusione mentale si fa eccessiva e va arginata attraverso la disciplina. Vivo in questo modo anche quando non sono felice, quando la vita mi delude e la scrittura diventa più vera della vita e allora, anche qui, merita la massima dedizione e disciplina. Però, poiché tutto sommato ogni tanto sono felice e tutto sommato non sempre sono così concentrato, questo modello di giornata si realizza solo a tratti. Negli altri periodi, l’organizzazione del tempo è assai più elastica.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Mi serve anzitutto l’equilibrio del corpo. La gente ride quando dico che vado a correre o a nuotare per poter scrivere bene, eppure è così. Devo stare attento anche al cibo, certi cibi sono nemici della concentrazione. E poi mi serve silenzio. Silenzio. Silenzio. Isolamento e ancora silenzio. Magari poi metto le cuffie e mi sparo nelle orecchie musica techno per avere ritmo ed energia, ma l’importante è che non ci siano altre voci, non ci siano richiami, non ci sia nessuno a ricordarmi chi sono. Voglio dire: scrivere è come meditare. Quando mediti dimentichi te stesso. Un romanzo non si scrive con l’ego. Un romanzo di talento deve esprimere qualcosa di molto più ampio della parte cosciente di chi lo ha scritto.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Di tanti scrittori del passato penso siano sopravvalutati. Vale per vari autori del Novecento ma anche dell’Ottocento. La grandezza di certi russi è una faccenda che ancora mi sfugge. Per contro, ci sono autori che mi annichiliscono: se Flaubert ha scritto ‘Madame Bovary’ centocinquant’anni fa, che ci stiamo a fare noi oggi? Suppongo sia la stessa domanda che si fa un musicista ascoltando ‘Abbey Road’ dei Beatles. Ma per quanto mi riguarda è un annichilimento sano: che la bellezza perfetta sia esistita non significa che non esisterà mai più; significa al contrario che può esistere ancora; avrà forma diversa, ma esisterà ancora. La letteratura è eterna proprio nel senso che in ogni punto dell’eternità c’è bisogno che un libro venga scritto, qui e ora, nella speranza di rinnovare l’esperienza della bellezza.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Ogni tanto qualcuno mi dice che dovrei tornare a vivere a Milano o a Roma. Dovrei farmi vedere, avere gli amici giusti, dovrei smettere di fare l’outsider. Io rispondo che ho conosciuto più scrittori e personaggi creativamente interessanti a Padova, città dove ho passato parecchi dei miei anni, oppure durante i soggiorni all’estero, che non in città autistiche e sfibrate come Milano e Roma. E poi, gli scrittori sono molecole in ebollizione. Si aggregano e disgregano e in fondo, di quelli che oggi occupano le pagine culturali, sono molti quelli che evaporeranno.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Non ne ho idea. So soltanto che non posso immaginarmi diverso da ciò che sono.
Marco Mancassola ha trentacinque anni. Il suo ultimo romanzo pubblicato è ‘La vita erotica dei superuomini’ (Rizzoli). Il suo prossimo libro sarà ‘Les Limbes’, in uscita a gennaio 2010 per Gallimard.
www.marcomancassola.com
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