Intervista a Giuseppe Lupo
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Mi sono avvicinato alla scrittura per una strana situazione. Fino all’età di diciassette anni non avevo letto un libro, pur provenendo da una famiglia che coltivava da sempre il gusto per la lettura e possedeva più di cinquemila volumi in casa. Anzi, più i miei genitori mi invitavano a leggere, più reagivo con un no, per ripicca o per insofferenza. Sarei voluto diventare tipografo. È stato il terremoto del 1980 in Lucania e in Irpinia che ha cambiato la mia vita. Frequentavo l’ultimo anno del liceo, conducevo una vita tipica per un ragazzo che abitava sull’Appennino meridionale (amici, motorini, cinema…), ma il sisma ha modificato la rete dei rapporti. Le scuole furono chiuse per mesi, la gente partì, non sapevamo dove fossero parenti e conoscenti. Sarà stata la solitudine di quell’inverno, che fu particolarmente severo, sarà stata la paura di morire o lo scrupolo di essere scampato alla morta, ma io in quell’inverno di solitudine ho cominciato a capire che i libri potevano essere la mia compagnia, potevano riempire il vuoto che sentivo intorno a me. Il primo romanzo che ho letto fino in fondo e poi ho letto e riletto è stato Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Il romanzo di un forestiero che aveva compreso l’anima della mia terra meglio di chiunque altro.
Se consideriamo come estremi l´istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Decisamente nella seconda categoria. Non ho mai creduto al mito dello scrittore selvaggio e naif, pur difendendo una certa istintività nel comporre libri. Ricordo cosa diceva Raffaele Crovi, che per me è stato come un maestro: bisogna essere onnivori, bisogna conoscere quanti più libri e autori possibili. In altre parole, bisogna essere colti. Solo così si può evitare di ripetere storie già dette o di correre il rischio di plagio. Può sembrare paradossale, ma il plagio, cioè l’imitazione di qualcosa che è stato già stampato, avviene proprio quando si ha una conoscenza limitata della letteratura. È cose se dicessi: adesso vi racconto una storia con un re che torna a casa dopo tanti anni di guerra e c’è sua moglie che lo aspetta. Non ci si rende conto che è stata già raccontata da Omero. Ecco, si potrebbe anche raccontare questa storia, ma con la consapevolezza che prima di noi qualcun altro, più bravo, l’ha già raccontata e bisogna trovare una strada nuova per farlo.
Se poi, per razionalità consapevole, lei intende una programmazione e una sistematicità nel lavoro, anche in questo caso devo dire che sono metodico. Prima di trasferirmi dalla Lucania a Milano ero disordinato. Milano è servita a disciplinarmi.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un´ispirazione? Ce ne parli.
Cerco di essere molto ordinato perché non credo in quella che comunemente si chiama “ispirazione”. Più che all’istinto, nutro fiducia nella geometria, cioè nell’ordine. Ho settimana divise a “gabbie”: dal lunedì al venerdì lavoro alle carte universitarie (sono ricercatore di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano), il sabato, la domenica e tutto il resto del tempo libero (vacanze estive, vacanze natalizie e pasquali) lavoro alle carte narrative. Quando scherzo, distinguo una scrittura feriale e una scrittura festiva. Se penso a un romanzo, comincio da un’idea, che mi viene un po’ a caso, un po’ ragionando. Prima di mettermi a scrivere, però, me la faccio girare in testa a lungo, fino a quando non arriva il momento di gettarla su carta in forma di progetto. Credo molto nell’architettura dei libri. Solo quando sono certo che l’edificio reggerà, comincio a scrivere nel significato tradizionale di riempire pagine bianche. Infine comincia la fase (più lunga) della riscrittura, del rifacimento, che è il lavoro più importante per me, quello dove il libro acquista una finitezza e una raffinatezza. Insomma, scrivere secondo me è un impegno che somiglia al lavoro artigianale di un falegname.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Ho bisogno di silenzio e di una particolare luce del giorno, non troppo accecante e nemmeno fioca. Per esempio non sopporto la luce non naturale come quella di una lampadina elettrica. E poi, se posso, mi piace circondarmi di oggetti dal colore verde, che mi richiama i prati.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava "sputare" sull´altare dell´arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
In parte le ho risposto prima. Non si può fare un cammino se non si ha la benzina necessaria. La benzina, in questo caso, è il grado più o meno approfondito di cultura. Per cui più se ne ha, meglio è. È chiaro poi che, a un certo punto, occorre liberarsi dei padri, andare per la propria strada, trovare una propria identità. Ma questo non accade se a monte c’è un rifiuto della tradizione. La tradizione, secondo me, va attraversata e poi lasciata alle spalle.
L´avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c´erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Un tempo esistevano i caffè, che erano il luogo deputato agli incontri. Poi i caffè sono stati soppiantati dalle riviste. Poi le riviste sono morte e il ruolo che una volta era svolto dalla piazza (l’agorà) è stato occupato dalla rete, da internet. Io non credo che la realtà virtuale prenderà il posto della realtà reale. E spero che non muoia il tempo in cui gli uomini parlino guardandosi negli occhi. Sarebbe un mondo squallido quello in cui sappiamo tutto di tutto, ma ci dimentichiamo cosa si fa a convivere, a fondare un destino comunitario. Per cui continuo a pensare che il libro di carta non morirà mai e che possa esistere da qualche parte un luogo in cui chi ama i libri e chi scrive i libri possano ritrovarsi: una immensa biblioteca dove i sogni e i progetti trovino il luogo adatto per impastarsi.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Non posso dire che sognavo di scrivere già quando ero nell’infanzia, anche se sono sempre stato attratto dalla carta, dal profumo dell’inchiostro. Però quando ho capito, dopo il terremoto del 1980, che la mia vita poteva essere spesa dentro i libri, non ho lesinato sforzi per poter realizzare questo obiettivo. Non è stato facile, la concorrenza è agguerrita e in Italia le cifre del mercato non sono particolarmente invoglianti, però penso che la letteratura sia uno dei grandi veicoli di felicità. Altrimenti non mi spiego perché tanta gente, anche la più insospettabile, desidera vedere il proprio nome stampato su un libro. Scrivere una storia e vedere che gli altri la leggono è una delle esperienze più entusiasmanti che possa toccare a un uomo perché è una delle azioni più antiche del mondo. Anzi è un’azione nata con il mondo. Poterla fare, poter essere uno dei tanti che trova ascolto nei lettori, sia pure in una fascia minima, è una grande fortuna.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie a lei.
Giuseppe Lupo è nato in Lucania (Atella 1963) e insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e di Brescia. Con Marsilio ha pubblicato i romanzi L’americano di Celenne (2000), con cui nel 2001 ha vinto il Premio Giuseppe Berto, il Premio Mondello opera prima, il Premio Fortunato Seminara e, nel 2002, in Francia, il Prix du premier roman, Ballo ad Agropinto (2004) e La carovana Zanardelli (2008; Premio Grinzane-Carical, Premio Carlo Levi).
È autore inoltre di numerosi saggi, tra cui Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta (1996; Premio Basilicata 1998), Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana (2002) e Le utopie della ragione. Raffaele Crovi intellettuale e scrittore (2003).
It.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Lupo
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