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Come scrivere un romanzo in 100 giorni

Intervista a Giancarlo Liviano D'Arcangelo

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Il mio approccio alla letteratura è stato del tutto casuale, affatto precoce. Nonostante avessi la casa piena di libri ho passato infanzia e adolescenza senza praticamente leggere nulla, se non i testi scolastici e i pochissimi romanzi indicati dalle professoresse d’italiano. Ho iniziato a leggere di più all’università, nei primi mesi soprattutto, perché da fuorisede appena proiettato in una realtà nuova e un po’ chiusa come Siena trascorrevo molto più tempo da solo. La lettura è così, se si inizia non se ne riesce più a fare a meno, anche se ancora non avrei mai immaginato che avrei provato a fare lo scrittore. Poi, banalmente, in seguito a una delusione amorosa, è arrivata una forte esigenza d’introspezione, che poi si è trasformata in un bisogno ancora più grande e irrinunciabile, quello cioè di ergersi a demiurgo della realtà. Seppur illusoriamente, infatti, la scrittura è l’unico strumento a disposizione dell’uomo che consente di riordinare il caos.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Credo che queste due grandezze non siano realmente separate tra loro. Esistono l’una grazie all’altra. In un romanzo devono coesistere questi due diversi momenti e integrarsi tra loro. Pagine in cui la storia che si è scelta di raccontare spinge l’autore a sciogliere la briglia ed esprimere ciò che a dentro nel miglior modo possibile consentito dal suo stile e pagine in cui l’apporto della razionalità spinge ad approfondire, a freddo, le psicologie dei personaggi, le loro dinamiche interazionali, i loro rapporti con la realtà in cui si muovono. Equidistanza dunque, nel nome dell’armonia e della completezza.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Fortunatamente in questa fase della mia vita posso dedicarmi quasi interamente alla letteratura, per cui sono riuscito a dotarmi di una certa metodicità che per la scrittura è fondamentale. Naturalmente ci sono dei giorni in cui il proprio equilibrio psicofisico offre segnali ben precisi in termini di previsioni di resa giornaliera. Quando la giornata sembra inadatta a dare il massimo sulla pagine si possono approfondire alcuni spunti già esistenti, ci si può documentare oppure si può revisionare il lavoro già fatto. L’ispirazione per me non è una specie di magia che fa sgorgare dal nulla pensieri, idee o intuizioni mirabolanti. Piuttosto è il frutto di un percorso intuitivo tra parole, poesie, fotografie, reportage, ascolto di musica, osservazione di una strada. La letteratura è ovunque, forse lo scrittore è solo qualcuno più abituato a vederla e darle forma attraverso lo stile.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Essendo come tutti un abitudinario, nei momento di massima concentrazione ho bisogno di essere circondato dai miei libri, dalle mie foto, dai miei accessi ai percorsi paralleli in cui può spingere l’intuito. Poi avere qualcosa di dolce e cremoso a portata di mano è un bell’aiuto.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Verso la tradizione letteraria, a mio modo di vedere, è giusto nutrire un sentimento d’amore. Non un amore cieco naturalmente, ma profondo e dotato di senso critico. L’amore rende radicali, esclusivi, irriducibili. In questo modo qualsiasi esperienza del passato viene valutata in base alla propria idea di letteratura, alla propria filosofia di artista, e naturalmente sarà facile imbattersi a libri e scrittori del passato verso cui nutrire stima e ammirazione e in altri che si reputeranno meno interessanti: per quanto mi riguarda, considero assolutamente necessari scrittori come Dostoevskij, Joyce, Pasolini, Nabokov, Sade e Rimbaud, molto meno altri come D’annunzio, Hugo o Maupassant.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

La verità è che oggi gli scrittori non hanno più il ruolo centrale di un tempo nei processi di formazione della cultura. È molto difficile oggi capire i meccanismi che regolano il rapporto tra centro e periferia. La realtà odierna soffre di un enorme problema a mio modo di vedere. È quasi interamente fondata sulle concatenazioni simboliche tra le sue parti. Esistono due realtà affatto coincidenti. Una è quella virtuale, drammaticamente semplificata, che prende vita nei mezzi di comunicazioni di massa e si estende fino alle menti dei fruitori, condizionandone pesantemente l’immaginario e le forme stesse di pensiero, allenate alla facilità, alla fruizione rapida di qualsiasi concetto. L’altra è quella irraggiungibile, complessa e mai afferrabile della vita concreta. Gli scrittori veri, inseguendo la seconda per natura, finiscono spesso e volentieri ai margini, e gli eletti sono gli scrittori che nei propri libri replicano forme, stile e lingua della televisione o del cinema blockbuster. Non è sempre così per fortuna, ma nella maggior parte dei casi si. In Italia questa situazione è estremizzata per la particolare ignoranza della borghesia, per cui gli scrittori, a prescindere da dove vivono, di fatto non partecipano al processo di formazione della cultura.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Scrivere mi ha salvato la vita interiore e mi permette di vivere riducendo al minimo il coefficiente d’alienazione. Solo inerpicandosi in un lento e affascinate percorso culturale si riesce ad avvicinarsi a una certo grado di libertà dall’ingerenza di elementi repressivi come società, conformismo e sistema economico. Forse è solo l’illusionismo di cui le parlavo all’inizio, basato sulla sensazione di poter destrutturare e ristrutturare il caos. Ma se scrivere è un illusionismo, è un illusionismo fatto bene, in cui scoprire il trucco è impossibile.

La ringrazio e buona scrittura.

Grazie a lei per le bellissime domande.

www. notte illuminata.com

Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Bologna nel 1977 ed è cresciuto a Martina Franca, in Puglia. Ha sempre lavorato in tv, è studioso di mass media e ha pubblicato articoli e racconti sul "Best Off 2007 Voi siete qui" edito da Minimum Fax, Il Riformista e Rassegna Sindacale. Nel 2007 ha pubblicato il romanzo d’esordio "Andai, dentro la notte illuminata" (Pequod). Nel 2008 ha partecipato all’antologia "La storia siamo noi" (Neri Pozza). Fa parte della redazione di Nuovi Argomenti.

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