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Intervista a Gian Domenico Mazzocato

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

No, ho sempre saputo che avrei fatto lo scrittore. L’ho capito appena ho appreso “come si fa “ a leggere, sui 5 anni. Verne e soprattutto Salgari, ma anche i fratelli Grimm e Andersen. E quintali di fumetti.
Ho appreso, da subito e di istinto, che il lettore deve essere esclusivo (nulla esiste fuori della lettura) ed onnivoro (tutto - l’universo intero e ogni altro possibile e impossibile universo- è nella lettura) oppure non è un lettore.
L’ho capito quando mi sono trovato a riempire con la mia grafia da spennacchiotto (per la quale ho preso anche pessimi voti in condotta) quaderni di improbabili avventure e ringhianti poesie.
Un giorno mi trovai a fare sintesi tra le due cose (avventura e poesia) raccontando in versi Orlando che cerca di spezzare la sua Durlindana dopo la sconfitta di Roncisvalle. Lì avvertii in qualche modo che la mia sorte era segnata.
In questi anni maturi non ho accettato i compromessi. Mi misi a cercare, a leggere ancora di più, a costruire linguaggio. I miei insegnanti di lettere li posso dividere, dalle elementari all’università, tra quelli che mi davano dieci (forse perché intuivano qualcosa) e quelli che mi avvicinavano allo zero. Senza sfumature intermedie. Devo dire, con i parametri adulti, che avevano ragione i secondi.
Scrivevo effettivamente male.
Sentivo il tema come una prigione, non davo profondità e spessore alla parola, non mi andava di scandagliare a fondo certi argomenti prestabiliti. Insomma preconfezionati da altri. Una volta tutti gli enunciati dei temi erano, seppur in forma criptica e magari furbescamente, a tesi. Bisognava finire col dire quella certa cosa.
Ma in qualche modo mi sono traghettato alla meno peggio e mi sono laureato con grande soddisfazione di tutti con una tesi sullo scrittore più eccentrico (in senso etimologico, assieme a Ruzante) della letteratura italiana, Teofilo Folengo.
Poi la vita mi ha dirottato altrove e un po’ mi ha disperso (insegnamento tra università e liceo, giornalismo, uffici stampa).
Un giorno, ero sui quarant’anni, mia moglie Egle (cui devo il fatto stesso di esistere come intellettuale) mi disse “O tiri fuori ora il tuo talento o non lo farai mai più”. Nacque così il mio primo romanzo Il delitto della contessa Onigo, quello che mi diede un discreto successo, che vinse un premio importante, fu ridotto per il teatro e resta un evergreen nelle classifiche.
A proposito. Molti anni dopo il mio canto di Orlando, camminando verso Santiago di Compostela, ho visto Roncisvalle.
Sono restato un po’ deluso perché Roncisvalle non è il vero passo (il quale si trova un po’ più in alto, ad Ibañeta.Un prato costellato da infinite croci portate e lì infitte nei secoli da legioni di pellegrini. Io sognavo un luogo da cui si potessero vedere tutta Spagna e tutta Francia nello stesso istante. Invece…) ma non mi sono dimenticato di ringraziare mentalmente il mio eroe.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Con lessico diverso, è di fatto la identica domanda che mi fanno sempre i ragazzi quando vado a parlare nelle scuole dei miei libri.
Dico loro che il sacro fuoco non esiste, che scrivere è sangue, sudore e lacrime.
Lo dico anche (con le dovute cautele, con la giusta comprensione, con sempre più affinato discernimento) a queste persone che escono dalle scuole di cosiddetta scrittura creativa (peraltro: perché quell’aggettivo? Se la scrittura non è già creativa di per sé, che scrittura è?): mi sembrano tutte uguali, standardizzate, barocche (nel senso della maraviglia inseguita come fine e non come mezzo), preoccupate molto dell’incipit e dell’explicit.
Ma pensose poco su quanto bisogna metterci in mezzo.
Ai ragazzi suggerisco che bisogna costruirsi un linguaggio, con pazienza, battendo strade diverse, magari accettando di friggere nella inconsapevolezza di dove diavolo si stia andando a parare. Bisogna piantare i paletti attorno al mondo che si vuole raccontare e soprattutto capire davvero qual è quel mondo.
Dico loro che quando saranno padroni del loro dire lo comprenderanno con pienezza, che avranno consapevolezza di quell’istante di rivelazione. Però aggiungo anche che non si possono e non si devono accontentare. Per provocarli gli faccio presente che io quando scrivo un romanzo (dopo averlo pensato a lungo) lavoro per un mese come l’operaio che timbra il cartellino. Devo produrre tot scrittura in tot ore. Ma devo aver anche sempre presente che una riga mi può costare una settimana e una pagina un minuto.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Beh, qualcosa ho appena detto.
Io sono uno che racconta storie, le cattura, ci si documenta, le insegue. In continuazione e per buona aggiunta mi chiedo quale spazio sarà lasciato all’invenzione dopo che avrò indagato ogni possibile angolo.
E scopro, grazie al nume che veglia sugli scrittori, che quello spazio è sempre e comunque dilatato, con orizzonti lontani e tutti da esplorare. Però devo dire che mi piace l’espressione della domanda: caos della vita. Sì, certo sono in attesa (ma anche in agguato!), ben immerso in quel caos. Ma non attendo una ispirazione generica, esangue. Attendo archetipi, mie immagini specchiate, storie innervate di vita.
Perché è vero che si racconta sempre e solo se stessi, e che si scrive sempre lo stesso identico romanzo.
Ma è anche vero che si è disponibili alle svolte, ai giri bruschi. La scrittura è crudele, ma miracolosa in questo senso. E comunque uno come me scrive sempre per rielaborare, per curarsi senza desiderare di guarire. Come per una ferita che non si cicatrizza mai fino in fondo.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Del mio pc, di internet, dello spazio fisico della biblioteca, di 10 matite dalla punta acuminata per prendere un appunto su un foglio a fianco del pc.
Ho bisogno di sapere che sono fasciato - una sorta di liquido amniotico- da migliaia di volumi (parlo della biblioteca della mia città, Treviso) in cui tutti hanno già detto tutto. Lì, in quel nuotare appeso al boccaglio del cordone ombelicale, cerco un esiguo spazio di novità.
Ho bisogno anche dei luoghi fisici che racconto. Quando ho raccontato la collina (il Montello, uno degli spazi mitici del mio secondo romanzo Il bosco veneziano) che delimita a nord il territorio in cui vivo, mi sono trovato un giorno in una forra, nel bel mezzo di una dolina delimitata da faggi e robinie, a due passi da una sorgente da cui scaturisce un filo d’acqua che poi in pianura diventa fiume robusto. Ero solo, sull’imbrunire, tra ectoplasmi evocati dalla mia mente.
Lì ho immaginato, per un suggerimento che era nell’aria, nella terra, tra le foglie degli alberi, una scena forte del romanzo, così ruvida e scabra che ho dovuto ripensare anche tutta la struttura del romanzo stesso in funzione di quella scena.
È questo farsi continuo, come di magma, ad irrorare di sangue e linfa la domanda dura e ineludibile che la scrittura pone allo scrittore per poter essere usata. La condizione che devi sottoscrivere, il foglio di impegni.
Direi così: la scrittura è sesso altro rispetto allo scrittore. Per essere ammesso ad amarlo devi sentirti sempre sotto esame.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Ho già detto i miei archetipi. Se nego che nella mia anima fumano altari dedicati a Sandokan, Yanez, capitan Nemo e Sherazade, reco sfregio alla mia stessa religione. Ovvio che con la maturità ho indirizzato e polarizzato la ricerca. Amo soprattutto la narrativa dell’Ottocento e in modo particolare le narrative francese e inglese. Trovo che Balzac è il genio assoluto della scrittura, il più grande narratore mai esistito. Ma poi Zola, Maupassant (le sue infinite paure sono uno specchio della mia anima), con due predilezioni totalizzanti: Flaubert e soprattutto Stendhal. Tra i moderni Bernanos. Sento meno vicina la narrativa russa, ma ovviamente Guerra e pace è una sorta di bibbia indiscutibile. Altri amori grandi sono Dante (lo leggo sempre, tengo corsi di lettura e commento pubblici su di lui), Boccaccio (il fondatore della narrativa moderna) e Shakespeare.
Mi lasci dire una cosa su Marinetti. Aveva ragione, in pieno.
Voleva bruciare biblioteche e musei, abrogare il chiaro di luna.
Bisogna capire cosa davvero intendeva dire: in lui e con lui ha preso corpo il ripudio di una visione dell’arte meramente estetizzante e dunque sterile. Marinetti voleva un’arte al cui interno ci fosse un cuore pulsante e vivo. Magari con le sue aritmie e le sue pause, ma, proprio per questo, impegnato a sopravvivere.
La sua è una lezione formidabile e sono davvero felice che nell’anno secolare del Futurismo qualcuno se ne stia rendendo conto. Con un consiglio da bibliofilo accanito. Il Futurismo ha prodotto anche narrativa di abrasiva provocazione. Forse non sarebbe male riprendere in mano il marinettiano Mafarka il Futurista o Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi e trarne qualche buon spunto.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Non ho idee. Il pc mi tiene collegato al mondo. Trasmetto libri, articoli, collaborazioni, lettere. Ricevo libri, articoli, collaborazioni, lettere. Per posta elettronica faccio editing, con la posta elettronica, se posso dire così, guido la mano del grafico che realizza la copertina.
Per il mio romanzo Tanaquil l’Etrusca (io, narratore di cose venete, per una volta mi sono lasciato travolgere da un personaggio incontrato traducendo Livio) sono andato avanti 24 ore a disegnare insieme al mio grafico il volto della regina etrusca. Io a Treviso, lui a Bologna. Alla fine, spossato, gli ho detto: “Ci siamo. Adesso ti mando su la foto di un orecchino che ho scattata di nascosto al museo di Tarquinia, glielo appendi all’orecchio e la facciamo finita”. Ci siamo fatti una risata.
Amo vivere nel mio cono d’ombra (ma non certo su un’isola oceanica: viaggio moltissimo e sono un cittadino del mondo) distante dai riflettori dei salotti più o meno televisivi. So che lontano dal mio qui e ora, dal mio hic et nunc, non saprei scrivere nulla.
Amo definirmi un intellettuale di campagna. Amo poco le mode, non salvo che pochissimi tra gli scrittori miei contemporanei, spendo ogni energia a tormentare la mia prosa.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Non ho mai pensato alla scrittura (mi perdoni, preferisco dire così, non “letteratura”) come un mezzo, uno strumento, quanto piuttosto come un traguardo continuamente in fieri.
Certo, poi gli scrittori sono sempre malati e scrivono per guarire. Si avventurano in zone nebbiose in cui sono assediati dalle storie che devono/possono raccontare e non sanno mai se padroni sono loro che scrivono o le storie che chiedono di essere scritte. Devono saper tenere i piedi ancorati al suolo, sapere che camminano in una inesplorata terra di nessuno.
E scrivere ha migliorato la mia vita, la capacità di leggere e interpretare il mondo. La scrittura mi ha aiutato a conservare una qualche dose di ingenuità: lo stupore è la benzina del mio modo di vivere questo mestiere di scrivere.
Non vorrei tuttavia che si pensasse ad uno stupore da romanzi rosa o da idillio.
No, penso allo stupore panico di cui parla Kant. Penso allo stupore consapevole di Zarathustra. Lo si prova nei momenti in cui, isolata una parola, riesci a sentirti per un attimo vicino all’intuizione dell’essere puro.
Ti chiedi: è la parola giusta per trasmettere questo frammento di verità che in questo istante appartiene solo a me? È la domanda più feconda che possa farsi uno scrittore. Però è anche quella più insidiosa, quella che rischia di risultare particolarmente presuntuosa.
Nessuno possiede ricette. Il poeta vate è una frottola buona per i nazionalismi da accatto. Bisogna avanzare con copiose provviste di vaccino dell’autoironia, mai prendendosi troppo sul serio.
La coscienza di Zeno e Rubè sono i due libri più magistrali della prima parte del Novecento italiano.

La ringrazio e buona scrittura.

L’OPERA DI GIAN DOMENICO MAZZOCATO
È IN http://www.giandomenicomazzocato.it/

Gian Domenico Mazzocato risponde a tutti a questo indirizzo di posta elettronica
giandoscriba@giandomenicomazzocato.it

GIAN DOMENICO MAZZOCATO (Treviso, 1946) giornalista e fotografo, è uno dei più apprezzati scrittori dell’ultima generazione veneta.
Le sue opere di narrativa: Il delitto della contessa Onigo (premio Gambrinus Mazzotti ‘98), Il bosco veneziano, Gli ospiti notturni, Il caso Pavan (finalista Premio Chianti 2005), Veneto Oscuro. Per il teatro ha scritto tra l’altro Mato de guera.
Le sue ultime opere Tanaquil, l’Etrusca, Il vento e la roccia, Colline incantate.
Nel 2009 è uscito il suo terzo volume di liriche, Dalla selva delle esili memorie (dopo Il fuoco vecchio e Straniarsi è qui).
È traduttore della grande storiografia latina (Tacito e Tito Livio, Edizioni Newton Compton) oltre che della poesia di Venanzio Fortunato.
Ha firmato testi per importanti fotografi italiani. Per mercatini nel Veneto è il primo libro in cui, oltre che dei testi, è anche autore delle immagini.

È presidente dell’Ateneo di Treviso, la massima associazione culturale della sua città.

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