Intervista ad Antonella Cilento
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Ho iniziato a scrivere racconti furiosamente nell'estate dei miei quattordici anni. Non è stato un caso: volevo farlo dai miei sei anni, però dicevo in giro, perché mi sembrava socialmente più accettabile, che da grande avrei fatto la giornalista... In una famiglia piuttosto concreta in merito alle aspirazioni dire di voler essere un'artista aveva dei rischi e lo percepivo assai bene, anche se ero così piccola. Ho protetto le mie fantasie strenuamente e poi ho lottato per avverarle. Dunque, niente di casuale (al caso non credo) e tutto lavorato e calcolato, certo sempre con il dubbio di stare vivendo di illusioni. A otto anni mi fu chiesto di scrivere una poesia sulla primavera. Non ne avevo mai scritte: disegnavo le storie o me le immaginavo, ma la poesia era altra cosa, chissà se sapevo scriverne... Profittai di un sussidiario non mio - mia madre lavorava nella scuola - e rubai il primo verso di una poesia stampata, partendo da lì per versificare. Funzionò. Ebbi un ottimo. E ignoravo del tutto di aver fatto un esercizio di scrittura creativa (cut up), in anticipo sul mio destino di insegnante di scrittura... Però il vero rapporto con la narrazione è iniziato da adolescente, quando le letture fittissime hanno proiettato la loro ombra su di me. Spesso racconto dell'impressione che mi fece il racconto “Un paio di occhiali nuovi” di Annamaria Ortese, letto la prima volta alle scuole medie, dove “Il mare non bagna Napoli” era lettura obbligatoria. Vi si narra di una bambina cui vengono imposti gli occhiali e che va a provare le lenti nuove in un antico studio ottico napoletano. Quando prova le lenti ha il voltastomaco e vede gli adulti, che le avevano fatto pesare anche l'acquisto ("ottomila lire, vive vive!"), diversi da come li aveva immaginati, più pericolosi. Lessi questo racconto con un'improvvisa paura: fino ad allora avevo amato Salgari, Stevenson, Austen, Agatha Cristhie e altri scrittori di storie che mi portavano lontano dalla mia realtà per restituirmela come metafora. Invece l'Ortese parlava dei miei occhiali imposti in tenera età, dei miei litigi familiari e perfino del mio ottico (lo stesso, nel centro antico): dunque la letteratura parlava di me, de te fabula narratur.
E' stata la prima volta che ho pensato seriamente di scrivere oltre che di leggere. Il sistema per andare via dalla bruttezza della realtà si convertiva in un modo indispensabile per tornarvi e incidere su di essa. L'unico modo, per me.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
E' un doppio movimento: istintivamente raccolgo materiali e li accumulo e scientificamente li osservo per usarli. Gli estremi si toccano e si confondo. Natalie Goldberg scrive che siamo vittima di un creatore e un revisore: il creatore inventa gioiosamente e in libertà, anarchico; il revisore controlla e ordina, spesso controlla troppo e impedisce la creazione. Su questo lavoro molto quando insegno scrittura nei miei corsi per Lalineascritta (www.lalineascritta.it).
Per quanto mi riguarda questo procedimento durante la mia vita si è talmente automatizzato e raffinato che non ho mai momenti di blocco, (almeno per ora!).
Scrivo tutti i giorni, produco materiali in continuazione e anche quando non ne ho voglia, le storie si presentano di continuo.
Vivo la gioia della razionalità creativa e la prudenza dell'istinto, spesso capovolgendo le funzioni. Ho semplicemente necessità in continuazione di inventare storie e so come fare a farne scrivere anche agli altri... Questo poi è il segreto anche del mio lavoro di insegnante.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Scrivo tutti i giorni, rubacchio tempo alle lezioni e spesso scrivo anche mentre i miei allievi scrivono. Tutte le mattine al desk, se possibile, e poi in certi momenti dalla mattina alla sera. Ma anche quando sono molto stanca e faccio altro, per esempio all'uscita di un romanzo, anche quando viaggio come una trottola, ho il mio quaderno e scrivo, scrivo, scrivo... Grandissima parte del materiale prodotto è inutile e idiota, ma solo così arrivo poi a trovare, ogni tanto, la luce.
C'è metodo in questo, ovviamente. Di continuo e tutti i giorni occorre tenersi in allenamento. L'ispirazione, cosiddetta, va richiamata a noi, non arriva per suo conto: scrivere è un atto preciso e inesorabile della volontà. La disciplina è il novanta per cento del risultato finale. Se si considera che l'ultimo mio libro, “Isole senza mare”, è uscito a marzo per Guanda dopo dieci anni di lavoro dalla posa, per così dire, della prima parola, e che nel frattempo ho scritto anche altri libri, testi per il teatro, la radio e il cinema, articoli, tenuto corsi tutti i giorni e organizzato eventi, oltre a gestire una casa, tre gatti e un compagno, credo sia evidente che per scrivere occorra un'energia quasi disumana e una testardaggine altrettanto inesorabile. Mi viene facile perché ho testardissimi avi sardi, granitici, come è in parte narrato in “Isole senza mare”...
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
I miei gatti, che dormono beati mentre pesto i tasti del pc. Mi è utile avere la casa vuota e la mia scrivania. Non ci sono altri riti. Posso anche scrivere in autobus o in treno, alle fermate dei mezzi pubblici, in un bar. Ma, certo, a casa è meglio...
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Venero i miei antenati letterari e che questo sia l'unico metodo possibile e l'unica giusta azione lo rivela la distanza siderale che passa fra un microbo come Marinetti e un grande artista come Keats... Ho sempre amato i libri più di me stessa: amo molto e studio e rispetto le scrittrici che mi hanno influenzato, dall'Ortese, che ho già citato, ad Elsa Morante, da Fabrizia Ramondino, troppo poco ricordata, autrice di "Althenopis", un vero grande capolavoro, a Natalia Ginzburg, ad Anna Banti, la nostra Yourcenar, del tutto dimenticata in Italia, tanto che è possibile scrivere oggi un libro come “Stabat mater” di Tiziano Scarpa che narra la stessa identica trama di “Lavinia fuggita”, racconto celeberrimo della Banti censito in ogni grande letteratura del Novecento, senza che nessuno se ne accorga. La memoria in Italia è corta.
Amo infinitamente Stevenson, Hoffmann, Bulgakov, Flaubert e i russi tutti. Non c'è in verità uno scrittore o una scrittrice, grande o piccola/o, da cui non si impari. Il rapporto rispettoso con cui ci dobbiamo relazionare ai grandi autori che sono la nostra tradizione è imprescindibile: non si può scrivere senza o a prescindere da loro.
Lo ripeto a ogni corso e lo insegno tutti i giorni: non crediate di poter scrivere senza aver letto e letto tanto e bene.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
La provincia ha spesso prodotto in Italia gruppi di scrittori più fecondi delle grandi città, ma c'è anche una differenza fra Nord e Sud. Ad esempio, in questo momento, Napoli è l'epicentro della letteratura italiana, non fosse altro che per l'enorme quantità di scrittori che la narrano e vi vivono. Stiamo parlano di oltre sessanta persone, con diversi gradi di abilità letteraria, ovviamente. Dunque alcuni luoghi, città o province, attirano ciclicamente la scrittura in relazione, spesso, ai conflitti che animano questi luoghi. I Sud del mondo producono molti narratori. Le aree in guerra sono ricche di poeti e scrittori. Le periferie hanno più necessità di essere narrate e producono scrittori. Le geografie letterarie di Dionisotti andrebbero rilette, oggi, in base a questi effetti: Dionisotti diceva già sostanzialmente questo: non si può leggere un paese solo in termini diacronici e di tradizioni verticali, esiste anche una compresenza legata ai luoghi, sincronica rispetto alle necessità, alle combinazioni dei luoghi stessi. In alcuni casi le scuole di scrittura li raccolgono, quando non cercano di produrli artificialmente: dal mio laboratorio sono usciti finora dei buoni narratori, molto diversi fra loro per età e formazione. Dove si parla di scrittura con serietà e passione questo fenomeno naturale accade.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Poiché il mio desiderio era da sempre scrivere, ho semplicemente realizzato ciò che volevo. Era il mio unico strumento, forse il mio unico talento, (anche se altre cose le so fare benino), però la scrittura è sempre stata e sempre sarà la mia vera e ultima vocazione.
La ringrazio e buona scrittura.
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