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La vicinanza

Dalla finestra di camera mia vedo i tetti di circa una ventina di case, inoltre, molto più lontano, edifici immersi nella natura. Tegole nuove e vecchie; tegole scheggiate, tegole disposte male, forse il vento o la pioggia. Le tegole delle case distanti mi sfuggono, non posso mettere a fuoco.
La lontananza e la vicinanza da cose uguali. Non sono le cose in sé a mutare, cambia invece il mio punto di vista. Io sono, io sono la mia finestra. Scrutare la vicinanza è un lavoro da ricci, si tocca la vicinanza, la si descrive con cura, palmo a palmo. Se ne parla con chi ci sta vicino, forse, a volte. Come i prigionieri nel mito della caverna di Platone, non possono vedere oltre, costretti a tenere la testa immobile. La vicinanza può divenire una prigione. Osservare soltanto la vicinanza intendo.

Scrive Tolstòj su Resurrezione: «Persone che, per il destino o per i propri peccati-errori, siano state poste in una data condizione, per quanto sbagliata essa sia, si formeranno una visione della vita in base alla quale la loro condizione apparirà buona e degna di rispetto. Per mantenere poi tale visione, si tengono istintivamente in quella cerchia di persone nella quale viene approvata la concezione della vita e del loro posto in essa che loro si sono formati». La prossimità. Viviamo coccolandoci di prossimità.

Però accade anche altro. L’osservatore dicevo, la mia finestra. Pur nelle vicinanze, posso dirigere i miei occhi dalle tegole ad una pianta, dalla strada al gatto che cammina a poche decine di metri da me. Siamo abituati a fissare la vicinanza, ma abbiamo abitudini consolidate nel farlo, attraverso le medesime prospettive. In altre parole, godiamo d’una prossimità che conosciamo, non ci discostiamo troppo da cose già viste. Ecco la prigione di chi osserva con i soliti modi la solita vicinanza.
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