«Volevo capire perché sono morti 446 italiani», intervista a Caterina Soffici
Uscirà domani l’ultimo libro di Caterina Soffici, Nessuno può fermarmi (Feltrinelli), un romanzo che ci restituisce il piacere di conoscere la Storia attraverso la narrazione romanzesca.
Se l’arte si nutre di verità, e il romanzo è creazione immanente, ecco che Caterina Soffici declina la sua abilità di artista/scrittrice plasmando una storia che si presenta alternativamente come documento e intrattenimento, senza attriti, contraddizioni o conflitti di interesse, ma con delicatezza, equilibrio e, soprattutto, grande sensibilità.
Centrale è un episodio forse poco noto di quella che – ci perdonino gli storici di professione – potremmo definire come Storia collaterale. Non un effetto, e nemmeno una conseguenza, un a latere, piuttosto, della sequenza di eventi macroscopici.
Siamo nell’estate del 1940, la Guerra imperversa in Europa da ormai quasi un anno. Il 10 giugno, Mussolini dichiara guerra ai paesi alleati, schierandosi formalmente al fianco della Germania. La comunità italiana in Gran Bretagna viene considerata “nemica in patria” con l’ordine precipuo di arrestare e deportare nelle colonie dell’impero i residenti di sesso maschile compresi tra i 16 e i 75 anni, senza fare distinzione tra esuli antifascisti, ebrei scampati alle leggi razziali, semplici cittadini trasferitisi oltremanica da quasi mezzo secolo, italiani di nome, di tradizione, ma che, di fatto, il fascismo non l’avevano nemmeno conosciuto di prima mano. Ottocento di questi uomini, imbarcati sulla lussuosa nave da crociera Arandora Star e diretti ai campi di internamento in Canada, naufragarono la notte del 2 luglio 1940, quando la nave venne colpita da un sottomarino tedesco. Più della metà perì, assieme ad altri deportati di nazionalità tedesca e ufficiali e marinai inglesi.
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Se questo è il punto zero di un ipotetico piano cartesiano sul quale misurare i dati storico-cronologici, Nessuno può fermarmi inserisce, intersecando l’asse delle ascisse con quello delle ordinate, una serie di valori aggiunti che proiettano la storia di due coppie – Flo e Michele, Lina e Bart – in una linea temporale che origina del punto zero e continua ben oltre, fino ad arrivare al 2001 e al giovane Bartolomeo, un ragazzo in cerca di una verità che possa fornirgli, finalmente, anche un’identità.
In anteprima per i lettori di Sul Romanzo, ecco la nostra intervista all’autrice, Caterina Soffici, che incontrerà i lettori il 21 marzo a Milano (ore 18.30, presso laFeltrinelli di Piazza Duomo), a Bologna il 22 marzo (ore 18, Biblioteca Sala Borsa) e il 24 marzo a Parma (ore 18, presso laFeltrinelli RED).
Come prima domanda, cosa l’ha spinta al grande passo del romanzo?
Anche nei libri precedenti raccontavo storie, ma lo facevo da saggista, quindi solo in due dimensioni: quella temporale e quella spaziale. Un romanzo ti dà la possibilità di entrare in mondi paralleli, puoi dilatare all’infinito il numero di dimensioni in cui ti muovi, scavando nel carattere dei personaggi, facendoli interagire tra di loro. Hai la possibilità di andare avanti e indietro nel tempo. Di creare storie nelle storie. Di renderli vivi, insomma.
La storia che racconto in Nessuno può fermarmi l’ho vista fin dal primo momento come un romanzo. Mi è stato subito chiaro che non potevo raccontarla in altri modi, perché avrebbe perso la dimensione tragica, il pathos, gli intrecci e i rapporti personali, che qui sono fondamentali.
Devo ringraziare Alberto Rollo, editor di grande esperienza, per avermi dato il coraggio di fare il passo. In verità era dal 2010, dal primo libro con Feltrinelli, che Alberto aspettava. Ricordo ancora la scena, davanti alla fotocopiatrice in via Andegari. Mi fermò e mi disse: «Io lo so, tu prima o poi mi arrivi con un romanzo. Ti do cinque anni, al massimo». Gli risposi che era pazzo. Aveva ragione lui. Nella primavera del 2015 mi sono presentata con l’idea per questo romanzo.
Il libro è incentrato in parte intorno a fatti del giugno/luglio 1940, alla vicenda degli internati italiani in Gran Bretagna dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno di Mussolini al paese e all’affondamento dell'Arandora Star. Le confesso che durante la lettura ho dovuto fare io stessa delle ricerche per meglio entrare in quel periodo storico. Com’è nata l’idea di rifarsi a quegli eventi particolari per ordire la trama di Nessuno può fermarmi?
Per essere sinceri, nemmeno io conoscevo la storia dell’Arandora Star. L’ho scoperta grazie a una lapide nella Chiesa di St Peter, in Clerkenwell Road, a Londra. È la chiesa storica di Little Italy, dall’Ottocento fulcro della comunità italiana londinese. Da lì è partita la mia ricerca.
Mi è stato molto utile il lavoro della ricercatrice fiorentina Maria Serena Balestracci, che aveva portato alla luce l’episodio una quindicina di anni fa. Anche Gian Antonio Stella ne parla nel suo L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi. Ma purtroppo in Italia rimane una tragedia poco conosciuta.
Più leggevo e mi documentavo, più capivo che c’era stata una grande ingiustizia dietro questo fatto storico.
La mia storia e i miei personaggi sono pura fiction, ma gli avvenimenti che scorrono sotto sono tutti veri. Qui sta la potenza di questo racconto. Tra l’altro, mi sono divertita a inserire cammei di personaggi in carne e ossa. Ho voluto dare voce a queste persone, vittime di un odio xenofobo non giustificabile neppure in tempo di guerra. Sono morti 446 italiani, il più giovane era un ragazzo di 16 anni. Volevo capire perché. E soprattutto perché molte famiglie, a distanza di decine di anni, fossero così reticenti a parlarne. Sono stati spesso gli stessi famigliari delle vittime che hanno voluto dimenticare. Credo perché in certe situazioni è meglio dimenticare che ricordare.
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Verso l’inizio della storia, Flo dice qualcosa riguardo al diffondersi di un sentimento di inutilità nei confronti della memoria. Non è una considerazione un po’ amara da parte di chi, ormai in là negli anni, vede disperdersi il senso della propria vita, considerando che il ricordo è ciò che di più prezioso ogni individuo può lasciare di sé agli altri?
Flo in verità non dice che la memoria è inutile. All’inizio si domanda se sia davvero utile aver conservato quelle carte, perché è divisa tra la volontà di dimenticare e la necessità di ricordare. Noi tutti, credo, tendiamo a rimuovere le cose che ci hanno fatto soffrire. Ma non riusciamo a lasciarle andare completamente, perché sappiamo che è solo elaborando e superando quei dolori che possiamo andare avanti.
Quando alla porta di Flo bussa Bartolomeo, che vuole sapere, lei è costretta ad aprire i cassetti della memoria. All’inizio è sconcertata, ma poi capisce quanto la sua memoria sia importante, anche per il giovane Bart. Il ragazzo intuisce che solo sbrogliando la matassa del passato potrà risolvere la sua inadeguatezza e il suo dolore personale. Per questo non molla. È un percorso escatologico per entrambi.
Dall’altro capo della storia c’è il giovane Bartolomeo, che invece si sente ingiustamente privato di quel dono prezioso. Bartolomeo è un modello di giovane ideale o lei crede che la nuova generazione sia stata arbitrariamente spogliata di una parte importante della propria eredità storica e individuale?
Ci sono snodi della vita nei quali l’identità diventa la cosa più importante. Io credo che ce ne siano almeno tre. Il primo è intorno ai vent’anni, quando si mettono le basi per l’esistenza autonoma. Il secondo intorno ai cinquanta, quando si tirano le somme del prima e del dopo. E il terzo quando si avvicina il bilancio finale.
Il giovane Bartolomeo all’inizio del romanzo si trova nel primo snodo. Più che una questione generazionale, io lo vedo come uno snodo personale. La memoria qui fa da puntello per la costruzione della sua identità. Senza capire cosa è successo prima, il giovane Bart è zoppo. Solo quando capirà e potrà dare un nome alle cose, inizierà metaforicamente a correre e nessuno lo potrà più fermare.
Una trama che è davvero un ordito, al di là del banale gioco di parole. Nel romanzo si intrecciano più voci, più storie, più piani temporali, più ambientazioni. Dettagli che non sono tra i più semplici da gestire sotto il profilo della tecnica della scrittura, ma nel romanzo funzionano davvero molto bene. Volevo dunque chiederle innanzitutto il perché dell’adozione di questi particolari accorgimenti stilistici. E poi, se vuole, potrebbe rivelare ai nostri lettori uno o due trucchi del mestiere dello scrittore, almeno secondo la sua esperienza?
Non ci sono trucchi, ahimè. Bisogna solo mettersi al tavolino e scrivere. Quando inizi sai a grandi linee dove vuoi andare, ma non sai come ci arriverai. Così è successo a me. Alcune cose le ho scoperte mentre scrivevo. La fine, invece, l’ho vista proprio davanti ai miei occhi prima ancora di iniziare a scrivere.
Qui la difficoltà era portare avanti i due piani del racconto: quello che accade a Flo e a Bart ai giorni nostri e i flashback del racconto storico sottostante, cioè la Londra degli anni Trenta e la vicenda dell’Arandora Star.
L’unico “trucco”, se così lo vogliamo definire, è una griglia dove, capitolo per capitolo, ho inserito i fatti principali che servivano per il racconto. E ho anche disegnato un albero genealogico della famiglia Berni, perché non ci fossero sfasamenti temporali. Poi il resto è venuto da sé.
Quale debito, magari puramente ideologico, ha il romanzo verso le citazioni riportate in esergo?
«Il mare era fiorito di cadaveri» è un verso di Eschilo che trovo bellissimo nella sua tragicità. È l’immagine che avevo di fronte agli occhi quando descrivevo i corpi delle vittime dell’Arandora trasportati dalle correnti sulle coste della Scozia.
«Siamo sempre lo straniero di qualcun altro» è una frase di Tahar Ben Jelloun così essenziale che il concetto non si potrebbe esprimere meglio. L’ho scelta proprio perché è un’istantanea del periodo che viviamo e anche un ricordo di quello che stiamo stati. E un monito per il futuro, aggiungerei.
Mentre la saggezza di Jane Eyre mi è sempre piaciuta. Ammetto che è un personaggio un po’ petulante, ma è stato uno dei miei primi amori di lettrice ragazzina, quindi era un tributo dovuto. Avrei voluto aggiungere anche Doris Lessing, meravigliosa, ma erano troppe le frasi che avrei dovuto saccheggiare. Non sapevo quale scegliere. Quindi le tengo per il prossimo romanzo.
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Dopo tre anni, Italia yes o Italia no? O anche, dopo la Brexit, Gran Bretagna yes o no?
L’Italia è sempre l’Italia, quindi per forza yes. Anche se è come un figlio adolescente, se può fare qualcosa di sbagliato per farti arrabbiare, lo farà.
Dopo la Brexit niente sarà più come prima. Anche a Londra, la città multiculturale per eccellenza, la metropoli del sindaco musulmano, delle mille lingue e delle diversità, il clima sta cambiando. Sono sempre più frequenti i casi di immigrati deportati perché non hanno – o hanno perso – il diritto di residenza. È successo a una donna di Singapore sposata con un inglese da 28 anni. Ha qui i figli e un nipote, ma l’hanno arrestata e caricata su un aereo per rispedirla al paese di origine, dove tra l’altro non ha più neppure una casa. Sono cose che fanno pensare.
Episodi del genere sono sbandierati sui giornali come monito. Il nuovo mantra del governo è “riprendere il controllo delle frontiere” che in sostanza vuol dire chiuderle. Ci sono già stati episodi di xenofobia, gli inglesi – per la verità un certo tipo di inglesi – si sentono legittimati a dire e fare cose che prima non si sarebbero mai azzardati neppure a pensare. Chi arriva dall’Italia con la carta d’identità e non con il passaporto elettronico, al controllo viene messo in un’altra coda e sottoposto a una sorta di interrogatorio. Niente di grave, al momento, ma una cosa sgradevole.
Essere straniero sta diventando un problema. La cosa più grave è che siamo passati al “noi” e “voi”. Noi inglesi, voi stranieri. Noi stranieri, voi inglesi. Da qualunque parte la si rigiri, non è un bel segno.
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