Vittorino Andreoli e la nevrosi della scrittura
Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, fa oramai parte del nostro immaginario collettivo. Chi non ricorda le sue tante ospitate televisive (a mia memoria molto frequenti nel Maurizio Costanzo Show degli anni Novanta e poi a cascata in tanti altri programmi tv), quando c’era un caso di cronaca e si era cominciato a non poter fare a meno dell’esperto scientifico.
L’esperto doveva parlare della questione con cognizione di causa e magari, dal punto di vista televisivo, essere anche “performativo”: il personaggio tv Andreoli è indissociabile dalla sua gestualità, da quelle sopracciglia folte e dalla capigliatura disordinata (d’altronde, come confessa lui stesso, non va mai dal barbiere), che hanno dato vita anche a fortunate imitazioni (quella di Francesca Reggiani, ad esempio).
Di Andreoli è da poco uscita da Rizzoli la sua ultima fatica: La gioia di pensare. Andreoli non ha mai smesso di pubblicare libri (in televisione oggi appare più di rado). Li sforna a getto continuo. Sul sito di una nota libreria on line si contano ben 98 testi di cui è autore (da solo o in collaborazione). Mentre scrivevo questa recensione, ho visto in metropolitana un signore che leggeva uno di questi libri (e non era neanche dei più recenti). Se posso permettermi, ma credo che il professor Andreoli sia molto generoso e comprenderà un povero recensore come me, penso che sia proprio la scrittura la sua “nevrosi” principale, il suo propellente indispensabile alla vita, per affermare e dare sostanza ai sentimenti, alle paure, al dolore del suo quotidiano (mi viene in mente, a livello di associazione, il verso di una poesia di Octavio Paz: «Anch’io sono scrittura»).
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È una questione così urgente, dice, che «pur di ottenere il mio foglio su cui scrivere, sarei disposto a piantare un arbusto in giardino». Come se fosse nato con la penna in mano e fosse incapace di lasciare in bianco la pagina. Per questo quando qualcuno gli domanda come fa a scrivere così tanti libri, lui risponde semplicemente: «Non so fare altro».
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E già dal preambolo del suo ultimo libro emerge forte la sua “nevrosi”. L’autore va in pellegrinaggio per le cartolerie della sua città alla ricerca di un’agenda di carta («uno di quei magnifici raccoglitori di parole»), un oggetto ormai quasi scomparso e sostituito dai nostri smartphone onnicomprensivi, per poter trascrivere i suoi pensieri e dare un senso al trascorrere del tempo, così “atemporale” nella odierna virtualità digitale. «L’agenda, in sostanza, era la rappresentazione del mistero del tempo, o quantomeno dei tentativi di spiegarlo non solo dal punto di vista della fisica ma anche dei vissuti».
E naturalmente è il libro uno degli oggetti sacri del professore: «la mia casa è un magazzino ordinato di libri. Non riesco a buttarne nemmeno uno anche se, all’apparenza, il suo contenuto è lontano dai miei interessi». I pensieri raccolti prima nell’agenda e adesso nel libro scandiscono i mesi dell’anno dal principio alla sua fine («la mia vita sembra fatta di pagine bianche che un dovere mi impone di riempire»).
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Molte cose, come osserva lo psichiatra, sembrano concorrere a rendere inutile il suo scrivere: tra tutte la stupidità, la malvagità dell’uomo che si esprime in mille situazioni e storie; lo smarrimento dell’uomo contemporaneo è uno degli argomenti più trattati dal psicanalista veneto («l’uomo smarrito predica un Dio sconosciuto che tace»). A questa condizione di minorità si accompagnano i vizi sempre più pervasivi dell’umanità (l’invidia che può annidarsi ovunque, la corruzione, il fondamentalismo religioso…). Soprattutto è l’uomo che agisce ed è al contempo agito dal Male, nell’epoca delle neuroscienze, quello che terrorizza ed agita di più Andreoli che intravede in questo un ritorno a una temperie medievale («Chi compie gesti orrendi non lo fa per sua volontà, non è lui ad agire, bensì il demone che lo possiede»).
La sua scrittura si concentra sulla distruzione di ogni possibile umanesimo, soffocato «dal potere del denaro, dalle religioni, dai deliri». È un mondo contraffatto quello che ha in spregio Andreoli, che rifugge dal vuoto chiacchiericcio di tv e giornali, per incontrare il mondo reale, quello dove i matti sono più normali della gente normale. La morte dell’umanesimo non che fa che produrre la proliferazione delle perversioni della mente e dei comportamenti. L’individuo finisce con l’essere schiavo del denaro e del suo potere: la perdita dei risparmi di una vita (per uno di quegli scandali finanziari di cui sono piene le nostre cronache) può quindi portare, nell’attuale sistema sociale e di “valori”, anche al suicidio. Lo sguardo “innocente” di Andreoli si appunta allora sulla bellezza, sugli stralci di vita autentica: sui versi dei grandi poeti, sulle manifestazioni della natura (il rincorrersi degli scoiattoli sui grandi abeti davanti alle finestre di casa, il richiamo di un cucciolo merlo) così meravigliosamente distanti dall’artificio dell’attuale regressione umana. A questa regressione Vittorino Andreoli non può che contrapporre la sua carta e la sua penna in una continua e “nevrotica” sfida.
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