Virginia Woolf secondo Emmanuelle Favier
C'è una versione tra le tante edizioni de La signora Dalloway che posseggo cui tengo particolarmente. È stata stampata nel 1949 da Mondadori con otto illustrazioni di Luigi Broggini che, con la folle indefinizione dell'acquerello, accompagnano il lettore nelle caverne di personaggi scavati da Virginia Woolf.
Questo per dimostrarvi che sono un Woolf-addicted e dubito si possa essere un appassionato e vorace lettore della prosa della Woolf senza diventarne dipendente. È una droga che scava nelle tue certezze, facendole implodere su loro stesse, costringendoti a guardare lì dove non vorresti, a soffrire e allo stesso tempo a godere di questa esposizione alle debolezze umane: «una tomba su cui stendersi a piangere, zattera di pietra dove gemere del proprio naufragio». Sì, per amare la Woolf, bisogna essere un po’ masochisti, vedere il bicchiere mezzo vuoto e concentrarsi almeno una volta al giorno sul senso della propria esistenza. Rispecchiandomi in questo ritratto, sulla carta ero il lettore ideale per il romanzo Virginia di Emmanuelle Favier (edito in Italia da Guanda e tradotto da Alba Bariffi) dedicato all’autrice di Gita al Faro, Orlando e Una stanza tutta per sé. Sapevo che c'era una ricerca approfondita fatta dalla Favier fra le carte, le foto e gli oggetti personali della giovane Virginia e contavo in un sagace romanzo che strizzasse l’occhio alla biografia, riempendo i buchi con l'immaginazione di una scrittrice più Woolf-addicted di me.
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Purtroppo, la Virginia di Emmanuelle Favier non è un romanzo, ma un saggio. Un saggio di pregevole fattura, scritto con un linguaggio curato, a tratti ricercato ed enfatico, che non riesce però ad arrivare al cuore del lettore. E se da un lato non posso che inchinarmi, con un poderoso chapeau, davanti alla cura della ricostruzione dei primi anni di vita di Adeline Virginia Alexandra Stephen (divenuta solo nel 1912 Virginia Woolf, sposando lo scrittore ed editore Leonard Woolf), una delle figlie di sir Leslie Stephen e di Julia Prinsep Jackson, lui famoso critico letterario e autore di numerose biografie, fra cui quella di Jonathan Swift, lei modella per pittori preraffaelliti come Edward Burne-Jones, dall’altro cresce, a ogni pagina, il rammarico per un’occasione sprecata: trasformare gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza di una delle più grandi scrittrici del XX secolo in un romanzo di formazione in cui scoprire la donna dietro l’icona.
Peccato, perché grazie alla Favier, scopriamo che la famiglia di Virginia poteva diventare la cornice perfetta anche per una saga storica e politica, ambientata nell'Inghilterra vittoriana di fine XIX secolo, dove l'arte regna sovrana e le emozioni vengono controllate e valorizzate in funzione del loro effetto sulle produzioni artistiche dei membri della famiglia Stephen. Una famiglia che ha visto passare dai corridoi della sua casa personaggi come Henry James, T.S. Eliot e James Russell Lowell, padrino di Virginia, artisti che si fermavano a bere una tazza di tè nella stessa dimora londinese di Hyde Park dove la Woolf fonda, con il fratello Thoby, un giornale dedicato alle avventure della famiglia Stephen. Senza considerare ciò che accade attorno alla famiglia e alla società britannica in quegli anni. È la stessa Favier a ricordare al lettore, capitolo per capitolo, il ribollire delle pubblicazioni scientifiche, poetiche e letterarie che si rincorre sotto l’apparente staticità del modello vittoriano. Il pensiero inizia a cambiare e alcune antenne, come Virginia, percepiscono e anticipano questo mutamento, iniziando a mettere in discussione idee e certezze, una per tutte la differenza in termini di diritti fra uomini e donne.
E se nel 1897 il giornalista britannico Walter Bagehot scriveva che sarebbero stati necessari ancora duemila anni affinché il gap di sviluppo fra il cervello di un uomo (giunto all’età adulta) e di una donna (ancora nella sua iniziale fase di sviluppo) potesse essere colmato, interpretando così il pensiero comune del tempo, Virginia di lì a pochi decenni avrebbe dimostrato un’acutezza e un’abilità nell’analisi psicologica dei suoi personaggi sconosciuta a molti scrittori maschi del suo tempo.
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Per questo, se l'occhio non può che godere nel soffermarsi su alcuni passaggi preziosi dell’opera di Emmanuelle Favier, come un ricamo di rugiada su un prato d'aprile, il cuore palpita infelice per un'occasione perduta, continuando imperterrito a seguire le “grandi falcate divoranti e solitarie” di Virginia Woolf.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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