Vibra ancora forte “L’eco di uno sparo” di Massimo Zamboni
Sembra di sentirlo ancora vibrare molto forte L’eco di uno sparo nell’aria. Certamente riecheggia nella storia personale e nella vita di Massimo Zamboni, musicista, cantautore, ex componente dei CCCP e dei CSI. Reggiano doc, ha pubblicato per Einaudi questo libro che ripercorre la storia vera di suo nonno Ulisse, squadrista e membro di un direttorio del fascio, ucciso nel febbraio del 1944 da un colpo di pistola alle spalle, quando era in sella alla sua bicicletta. La vicenda, sepolta da una coltre di anni, di polvere e di rancori forse mai sopiti, risveglia una ridda di sentimenti contrapposti e si incrocia con la Storia, quella fatta da grandi e piccoli eventi. Zamboni ricostruisce con la classica pazienza certosina e rigore filologico un percorso che gli ha richiesto ben 8 anni di lavoro.
L’eco di uno sparo si riverbera nell’aria e inevitabilmente nelle vite di chi era accanto a Ulisse: diciassette anni dopo, infatti, resta ucciso anche il partigiano che sparò al nonno di Zamboni, e a farlo fu proprio un “compagno”, un ex gappista. Un’indagine approfondita, a 70 anni dalla Resistenza, che rivela lati inediti e meravigliosi affreschi della campagna reggiana, con pennellate struggenti del suo paesaggio, del clima, dello stile di vita, così unico eppure riconoscibile solo ai suoi abitanti. Questi sono stati “fotografati” tra pregi e difetti come solo la penna di un reggiano è in grado di fare. Per lo stile, la narrazione in prima persona, per la complessità e l’approfondimento della documentazione colpisce il lettore nel profondo.
L’eco di uno sparo racconta una storia, ma anche una biografia familiare: come descriverebbe esattamente questo suo nuovo lavoro?
È una scrittura molto consapevole, le parole sono state scelte con cura e non c’è niente di casuale. Ci ho messo otto anni per condurre le mie ricerche e curare la stesura del libro. In tutti questi anni ho cambiato diverse volte idea rispetto al libro e rispetto a me stesso, mettendomi in discussione, dopo alcune scoperte di cui non ero a conoscenza. È stata una ricerca che si è aggiornata giorno dopo giorno, e man mano che si aggiungevano nuovi dati, nuovi elementi, cambiava la prospettiva con cui guardare alle stesse.
È stato difficile lavorare a questa ricerca?
Abbastanza, direi, anche perché abbraccia l’arco di tre secoli ed è una storia che ho costruito tassello dopo tassello senza sapere nulla, muovendomi a volte a tentoni. Non c’è stato neanche il supporto dei familiari a guidarmi, anche se alla fine sono stati contenti di quello che ho prodotto.
Quali sono gli insegnamenti e le conclusioni a cui è giunto alla fine del lavoro?
Innanzitutto ho provato una grandissima soddisfazione, anche perché il libro a Reggio è stato accettato benissimo da tutti. Non era un risultato così scontato come sembra, visto che parliamo di vendette, di assassini, di rancori che durano anni. Temevo che il libro venisse bollato come revisionista o come disonesto: certo, non sono super partes e lo dichiaro in apertura, e ho sempre pensato che occorresse uno sguardo nuovo su questi avvenimenti per ragionare sugli elementi ulteriori venuti a galla. Non possiamo pensare che, se abbiamo stabilito che il mondo è rosso e nero, o è bianco è nero, la discussione finisca lì. È una base di partenza, cui dobbiamo aggiungere gli uomini e le donne con le loro storie, le sfumature, gli intrecci e le contraddizioni, come quelle che riguardano la storia di mio nonno, ad esempio. Non ci può essere una lettura univoca degli eventi.
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L’eco di uno sparo è un viaggio nella Storia, ma anche un viaggio interiore…
Ho sempre scritto libri che avessero a che fare con i viaggi, anche se quest’ultimo è un viaggio “immobile” nella mia terra. Ho cercato di rendere evocativamente con la scrittura quello che gli occhi vedono, tant’è che ho dedicato il libro al “Cantico delle creature emiliane” perché ho pensato agli elementi salienti che dovessero essere presenti nel libro per essere letto e compreso anche da un non emiliano.
Nel libro si legge che «L’Emiliano è un popolo che sa uccidere a sangue caldo»: perché?
Noi siamo sempre stati considerati sanguigni, un popolo che non subisce, cosa che considero un vanto, mentre se dovessi riconoscere qualche colpa agli Italiani di oggi, nel loro complesso, direi certamente la passività, la remissività nel subire tutto, anche quei piccoli torti quotidiani cui forse si può porre rimedio, diversamente dai grandi eventi del mondo. Sparare a sangue freddo presuppone essere in guerra, un coraggio e una determinazione diverse per tirare fuori la pistola da sotto il tabarro e sparare da un metro di distanza in faccia ad una persona del tutto simile: tutt’un’altra cosa.
L’eco dello sparo mortale che uccise suo nonno Ulisse dove arriva oggi?
Ho le orecchie abbastanza aguzze per percepire dove arriva. Quando Muso è stato ucciso da Robinson, nessuno avrebbe pensato che quei proiettili che erano stati sparati 15 anni prima, in azioni assolutamente giustificabili, come erano quelle di guerra, avrebbero continuato il loro corso. In quel periodo Reggio Emilia era in piena espansione, stava rinascendo dopo la guerra, era proiettata in avanti. Se ci pensiamo bene, non sono passati poi tanti anni da quegli eventi. Oggi l’Italia non è un paese pacificato del tutto, così come Reggio non è una città pacificata. C’è ancora molto rancore che cova per quella mancanza di confessione che non è stata effettuata da parte di chi ha scatenato una guerra, da parte di chi comandava i soprusi. C’è stato un cambio di giacca e cravatta e ci si è seduti sulle stesse poltrone di prima, senza ammettere mai niente e non è pensabile che ciò possa lasciarci vivere in pace. Sento che questi proiettili vagano ancora oggi, come hanno vagato durante la mia adolescenza sotto forma di bombe.
Lei scrive che «I nipoti hanno il dovere della narrazione con un salto di generazione»: il distacco ha aiutato?
Penso che sia proprio così, che sia meglio che la narrazione venga affrontata da chi non c’era per darle un respiro più oggettivo. Del resto, quanti di quelli intorno a noi saprebbero raccontare i loro tempi? Non c’è né il tempo, né la capacità di leggere le “lettere” del nostro tempo. E così è stato per i nostri nonni e i nostri genitori che evidentemente provavano questa difficoltà e non avevano capito che cosa stava succedendo, che di lì a poco si sarebbe scatenata la guerra, né avevano capito da che parte stare.
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