Una storia da far venire le vertigini. Intervista a Sandy Allan
TRENTO – Sandy Allan con La Cresta Infinita (Alpine Studio) si è aggiudicato il premio Itas del libro di montagna nella sezione miglior opera non narrativa. Il libro – ha spiegato la giuria – racconta una straordinaria prova di resistenza e impegno ai limiti della sopravvivenza, una delle più grandi recenti imprese alpinistiche: la prima salita, nell’estate del 2012, alla vetta del Nanga Parbat, uno dei più difficili e imponenti Ottomila, lungo la Mazeno Rigde, un’infinita cresta lunga 10 chilometri. Prima di allora dieci spedizioni precedenti l’avevano tentata e avevano fallito. La straordinaria avventura dei sei alpinisti narrata da Allan in prima persona – ha raccontato la giuria – colpisce soprattutto per l’uso, sapientemente calibrato, del tipico understatement inglese che rende la narrazione a tratti anche ironica e mai autocelebrativa. A Trento, dove si è tenuta la premiazione, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Allan.
Tanti ci avevano provato, i vostri compagni avevano mollato, eppure lei e Rick Allen avete proseguito. Cosa vi ha spinto a non mollare, a costo di rischiare la vita?
Non pensavamo di rischiare la vita, perché ci preparavamo per quella scalata da davvero tanto tempo. Eravamo sicuri di potercela fare. Poi, quando siamo arrivati in cima e ci siamo resi conto di avere la vetta tutta per noi, è stato meraviglioso.
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Cosa succede al corpo umano a ottomila metri, quando una persona passa la maggior parte della sua vita senza superare i duemila metri?
Io non saprei la risposta, perché passo tantissimo tempo a elevate altitudini, sulle Alpi, specialmente sul Monte Bianco. Quindi il mio corpo non mi crea problemi. Non so se è mai stato nel Nepal, ma lì ci sono gli yak, buoi tibetani che non riescono a vivere a basse altitudini, dove fanno fatica. Ogni tanto mi sento come uno yak. Personalmente il mio corpo reagisce molto bene, si adatta bene alle altitudini elevate. Se devo raggiungere i 7.000 non ho problemi, mentre magari ho qualche problema con i 4.500. Il mio corpo sembra quasi rigenerarsi quanto più mi allontano dal livello del mare.
È importante raccontare i viaggi, anche se serve tempo, scrive Séverine Gauthier ne L’uomo montagna, illustrato da Amélie Fléchais e pubblicato in Italia da Tunué. Cosa l’ha convinta a raccontare la sua storia in un libro?
In generale mi piace condividere le mie avventure con le persone, quindi ho deciso di scrivere per questo motivo. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo umani, quindi possono esserci delle difficoltà ma se lavoriamo in squadra possiamo fare grandi cose, come scalare il Mazeno Ridge. A volte, nella società moderna, sembra quasi che ci siano dei limiti imposti alla nostra libertà. Dobbiamo riconoscere e parlare della nostra libertà.
Ricorda la prima volta che è stato in montagna?
Certo, me lo ricordo perfettamente. Ero molto piccolo e io e il mio fratellino siamo andati a trovare mio padre che si occupava della gestione di una distilleria di whisky, in una zona di montagna. Giunti in prossimità della distilleria ci siamo resi conto che eravamo coperti di neve fino alle braccia. Per fortuna è intervenuto a liberarci il nostro fratello più grande. La montagna è sempre stata parte di me e della mia famiglia.
Si ricorda cosa provò quella prima volta? E oggi cosa prova quando torna ad alta quota?
Sì, in generale posso dire che non ci sono particolari differenze. A me è sempre piaciuto andare in montagna, essere a contatto con la natura. Certo, oggi rispetto al passato riconosco che ci sono cose che un buon alpinista può fare. La cosa più importante è ricordarsi che siamo tutti esseri umani, che possono naturalmente accadere incidenti. La cosa più importante è avere l’esperienza necessaria per portare a termine la missione. C’è anche una certa innocenza per quanto riguarda la scalata in generale. Bisogna ricordarsi che dobbiamo lavorare insieme alla natura, non combatterla. Solo così la natura ci permetterà di fare grandi cose.
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Lei è un lettore di libri di montagna?
Sì, leggo molti libri di montagna. Li amo, sono libri che leggo da quando ero piccolo. In generale mi piace leggere libri di alpinisti che scalano le montagne facendo lavoro di squadra, non solo quelli che mirano a raggiungere le vette. In particolare mi piacciono i libri di Doug Scott, dove c’è sempre il lavoro di squadra. L’alpinismo non vuol dire solo salire sulla vetta della montagna e mettere la bandiera, ma divertirsi finché la scalata non è finita.
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