“Una mattina di ottobre” di Virginia Baily, la scrittrice inglese che racconta Roma
Una mattina di ottobre è il titolo in italiano dell’ultimo romanzo di Virginia Baily, scrittrice inglese che adora l’Italia e l’italiano. Tradotto da Giuseppe Maugeri, il volume è stato edito da Nord Editrice la quale ha organizzato un tour di presentazioni e interviste per l’autrice nel Belpaese. Durante la tappa milanese, abbiamo avuto l’occasione di incontrare la scrittrice e scoprire qualcosa in più sul suo ultimo lavoro.
Una mattina di ottobre è ambientato a Roma, inizialmente nel 1943 dove Chiara, spinta da un inspiegabile impulso, salva, secondo la sua intenzione, la vita di Daniele Levi, un bambino ebreo destinato ai campi di concentramento. Daniele è assieme alla sua famiglia quella mattina di ottobre, ma Chiara può salvare soltanto lui con un escamotage inventato sul momento. Secondo Chiara si tratterà di salvezza, ma perché Daniele avrà momenti in cui reputerà di non essere stato salvato ma condannato a vivere lontano dalla sua famiglia di sangue.
Parlando un italiano fluente, Virginia Baily ci ha svelato alcuni pensieri nascosti alla base di Una mattina di ottobre.
Come mai ha scelto di ambientare il romanzo in Italia?
Avevo sedici anni la prima volta che visitai l’Italia, più precisamente arrivai a Roma. Impiegai solo un istante per innamorarmi del posto, della lingua, della cultura, del cibo, dell’architettura e dei ragazzi. Mi ospitava mia zia e la mia permanenza fu come scoprire una certa italianità dentro di me. Per meglio dire, senza questo mio lato italiano mi sentivo come se non mi stessi esprimendo del tutto in quanto persona.
Cosa l’aveva colpita maggiormente durante questo primo viaggio?
Mi è rimasta per sempre un’immagine: mia zia andò a comprare il pane e io la accompagnai e lì c’era questo ragazzo che ci servì con gesti teatrali e ampi. La cosa mi affascinò moltissimo. E queste stesse sensazioni le percepisce, per certi versi, anche Maria, uno dei personaggi del libro, per metà inglese e per l’altra italiana.
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Parlando di Maria, cosa rappresenta?
Maria rispecchia il modo di vivere e sentire Roma. Infatti, indossa i vestiti di Chiara e vede nella Roma un palcoscenico teatrale. Piazza Navona è il palcoscenico per manifestare tutta la creatività di Maria. È italiana per metà, come dicevo, e scoprire la propria italianità è come scolpire dentro sé stessi. Perché è ciò che accade quando entri in contatto e ti addentri in una cultura diversa: scopri te stesso, ma anche ti si aprono nuove prospettive e obiettivi.
Come mai ha scelto come sottofondo iniziale della storia gli anni del fascismo?
Mi piaceva l’idea di ricreare la Roma occupata. In verità, è complicato spiegare come si sia formata l’idea nella sua interezza, di certo un’influenza non indifferente l’hanno avuta le mie ricerche post-laurea sui romanzi e la narrativa in generale durante la guerra, ovvero la letteratura clandestina. Avevo condotto una ricerca in Francia, dove la letteratura clandestina era molto florida, mentre in Italia, ho notato, era totalmente assente perché gli intellettuali erano sul fronte oppure fuggiti a causa della dittatura.
Parla un italiano eccezionale e nel libro si percepisce un suo grande affetto verso la lingua italiana, attraverso i sentimenti dei personaggi. Cosa la affascina maggiormente della lingua italiana?
È una lingua musicale, un canto con una sonorità splendida. Ed è questo che si manifesta in Maria, come una poesia che si manifesta in lei. Ho studiato il francese a scuola, ma verso l’italiano provo un sentimento d’amore perché ha una grande anima. Le confesso che è meraviglioso vedere e leggere la traduzione del romanzo in italiano.
Dal testo emerge un’immagine di famiglia poco tradizionale, si ha quasi la sensazione di un piccolo clan con legami poco sanguinei e molto di convivenza. È una sensazione corretta quella che ho percepito?
In UK è totalmente normale incontrare famiglie allargate, tenute assieme dall’affetto più che dal legame di sangue. E questa riflessione che mi accenna, mi piace molto e mi sento in accordo. Sì, le famiglie allargate di oggi somigliano, in qualche modo, ai vecchi clan.
Altro aspetto molto forte nel libro è il passato, anzi la sua accettazione come unica forma per la vita. È anche un suo pensiero o solo una necessità narrativa?
Quella che risulta essenziale in relazione al passato e all’accettarlo è Simone, l’amica di Chiara. Simone è realista, guarda le cose per quello che sono e Chiara apprezza. Simone, quindi, aiuta Chiara a rendersi conto di quello che ha fatto. Infatti, Chiara sente il peso della responsabilità che la schiaccia senza sapere come alleggerire questo peso perché il senso di colpa la tormenta. Simone le offre una prospettiva diversa, quella del perdono di sé stessi. E io condivido appieno la posizione di Simone.
Come affronta la scrittura? Segue con disciplina un certo tipo di percorso?
Ho poche regole, ma essenziali. Scrivere tutti i giorni e distinguere il momento creativo da quello di ricerca, cioè prima scateno la fantasia senza prestare molta attenzione all’attendibilità storica dei fatti e poi ricerco le informazioni esatte. La creatività ha bisogno di riposo, la ricerca può esser fatta anche un po’ stanchi. Quando ero a Roma scrivevo al mattino e nel pomeriggio passeggiavo per le strade di Roma, e questa era la ricerca. Una delle migliori, direi.
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