Una mamma e il cancro di suo figlio
Mirella Borgocroce e suo figlio si sono trovati ad affrontare forse la sfida più dura e difficile da vincere: affrontare e vincere il cancro.
Suo figlio aveva quattordici anni quando la terribile diagnosi e Mirella, da madre, si è trovata a gestire due dolori, quello di suo figlio e quello personale. La sua esperienza è diventata un libro edito da Sonzogno: Il ragazzo fortissimo. Cosa mio figlio e io abbiamo imparato dal cancro. E proprio dal sottotitolo siamo partiti per la nostra chiacchierata.
Mirella, spero mi perdonerà le prime due domande a bruciapelo, ma sono ispirate dal sottotitolo del libro. Cosa avete imparato e lei e suo figlio dal cancro?
Non è facile sintetizzare in un’unica risposta la consapevolezza che è somma di tanti piccoli lampi di intuizione, tuttavia mi sento di affermare che l’apprendimento più significativo per entrambi sia stato comprendere che non esiste situazione dolorosa, o malattia, che non sia anche occasione di crescita spirituale. Potrei addirittura dire che più grande è la sofferenza che dobbiamo affrontare, e più grande è l’occasione che abbiamo per fermarci a riflettere sul suo senso, su quello che dobbiamo imparare, sul valore che vogliamo attribuire all’esperienza stessa.
Per quanto riguarda me, la malattia di mio figlio mi ha aiutata a prendere consapevolezza del fatto che nella mia vita, e nella vita dei miei familiari, alcune circostanze dolorose erano una costante, si ripetevano con qualche variante, ma sostanzialmente generando lo stesso tipo di sofferenza. Non credevo fosse un caso.
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E cosa ha imparato lei da suo figlio in quei difficili momenti?
Da mio figlio ho imparato che un segreto per essere forti è evitare l’autocommiserazione e che l’esercizio del coraggio dà dignità. Ho imparato che arrabbiarsi perché ci tocca vivere un’esperienza sgradevole è inutile e che, invece, è importante accettare quello che la vita ci offre, mantenendo la determinazione di diventare felici nelle condizioni in cui ci si trova.
La diagnosi è arrivata quando suo figlio era in piena adolescenza. Cosa ricorda di suo figlio in quei momenti? E in che modo gli è stata accanto?
La diagnosi è arrivata quando Rocco aveva appena quattordici anni. Un’età, quella, in cui l’adolescente desidera solo diventare grande, camminare con le proprie gambe allontanandosi gradualmente dai genitori e facendo riferimento al gruppo dei pari. Con la malattia queste cose gli sono state rubate. Lui è tornato a essere bisognoso di accudimento e io la madre che accudiva. A scuola non poteva andare e gli amici riusciva a vederli solo negli intervalli tra un ricovero e l’altro, con molte cautele dettate dalle condizioni fisiche. Per fortuna, nel reparto di pediatria oncologica dell’Istituto dei tumori di Milano i ragazzi della sua età, e anche più grandi, erano coinvolti in un progetto mirato non solo all’adeguamento delle cure sull’età specifica, ma anche sugli aspetti psicologici adolescenziali. Abbiamo scoperto che l’adolescente, in molti ospedali, riceve cure inadeguate, perché il suo corpo non è ancora quello di un adulto, e non è più quello di un bambino, mentre le terapie sono di solito dosate su queste due tipologie di pazienti.
Da parte mia ho cercato di affiancarlo in questo percorso con tutti gli strumenti che avevo a disposizione, ho cercato di essere all’altezza degli sforzi che stava facendo per guarire.
Il libro si apre con quella che sembra una confessione: «All’epoca dei fatti che sto per raccontare avrei dovuto capirlo subito, che si trattava di una faccenda dalle radici profonde.» Quali sono queste radici?
Le radici del Karma. Sono buddista e questa esperienza mi ha costretta a scendere a grandi profondità interiori, con la meditazione, fino a scoprire che il mio karma personale coincideva con quello della mia famiglia. Questa scoperta mi ha fatto comprendere che dovevo rimuovere le cause spirituali che erano alla base della malattia.
All’inizio del libro lei sostiene di essere sempre stata convinta di non essere come tutte le altre madri, «di non avere spazio per contenere altre vite di cui prendermi cura». Quest’esperienza come l’ha cambiata? Quali parti di sé le ha fatto scoprire?
Ho scoperto di avere, invece, molto spazio per gli altri nel mio cuore. L’esercizio della meditazione intensa e disperata mi ha aperta al mondo e mi ha condotta al desiderio di condividere quest’esperienza intima con quante più persone possibili. Perché il dolore non è qualcosa che tocca solo agli sfortunati, ma è esperienza comune: comprendere questo significa sentirsi meno soli e in connessione con gli altri esseri umani.
Immagini di avere davanti una madre che sta vivendo un’esperienza simile a quella che ha vissuto lei. Cosa le direbbe?
Guardi, di madri che vivevano la mia stessa esperienza ne ho incontrate a decine, in ospedale. Ne incontro ancora: l’ultima proprio stamattina. Non sempre sono stata in grado di offrire loro parole di consolazione e questo mi ha lasciato un profondo senso di frustrazione.
Questo è stato uno dei motivi che mi ha spinta a scrivere il libro: cercare di parlare a chi soffre per dirgli che la preghiera è un mezzo potentissimo di trasformazione. Può tramutare la sofferenza in determinazione, la paura in coraggio, la disperazione in speranza.
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Alla fine del libro lei scrive: «Non c’è energia più potente di quella messa in moto da tante persone unite per realizzare il bene.» Cos’è oggi per lei il bene?
Il bene, per me, è riuscire a sentire questa connessione con gli altri, sentire l’umanità che ci accomuna, percepire la vita che scorre in me come in tutto quello che esiste, senziente o insenziente. Il bene è rispetto e armonia.
Il contrario del bene è creare divisione, trovare nemici da combattere, percepire l’io separato dal tu, e il mondo come qualcosa di esterno e distante, magari da sfruttare per i propri interessi.
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