Una crudele gioia. “Vi dichiaro marito e morte” di Simone Consorti
Vi dichiaro marito e morte, l’ultimo lavoro di Simone Consorti pubblicato da Edizioni Ensemble, raccoglie dieci racconti ben scritti e lineari che giocano con le situazioni più varie. Alternando gli ambienti e i punti di vista, Consorti evidenzia sia il suo amore per la poesia sia la sua passione per la fotografia e con stile ironico tratteggia personaggi che si fanno carico delle piccole tragedie quotidiane, mescolando tenerezza e buoni sentimenti, ma pure meschinerie e violenze atroci.
La penna dell’autore sa comunicare financo l’impossibilità della comunicazione stessa, e l’esito, però, è sempre l’immagine nitida dell’ambigua natura umana.
«Quella notte era stata una specie di time lapse. Intanto a passare in un attimo era stata la loro vacanza, visto che avevano già terminato i soldi.»(Al mio paese le donne non parlano). I suoi racconti sono delle microstorie veloci e lineari, ogni racconto è suddiviso in vere e proprie scene, cambi microscopici di prospettiva. Come mai ha preferito frammentare la materia narrata anziché farla fluire in un unico blocco narrativo?
È, in effetti, uno dei miei tratti distintivi, questo stile chiamiamolo impressionistico, fatto di pennellate veloci dove mi scappano via le singole scene per poi fondersi solo dopo, quando mi va bene, in un quadro e in un’atmosfera d’insieme. Tra gli scrittori impressionistici che amo, mi viene in mente Pascoli. Il suo modus scribendi consisteva nell’accumulare oggetti che, un po’ per volta, diventavano simboli, trasformandosi in veri e propri soggetti viventi. In lui, oltre a rivelare una sorta di horror vacui, l’accumulazione impressionistica di scene, di bozzetti e di oggetti nasceva da una difficoltà a guardare fissamente un’unica idea e a darle dei contorni definitivi; si sviluppava insomma da un grumo di tipo psicanalitico legato alla necessità di divincolarsi e di prendere aria. Credo che in me, in particolare in quest’ultimo libro, il processo sia simile e allo stesso motivo riconducibile. Più che la necessità indotta di andare incontro al lettore producendo paragrafi molto brevi, in quanto leggibili e facilmente fruibili, questo tratteggiare appena e ritornare più in là accumulando è, essenzialmente, l’unico modo autentico che ho a disposizione per vedere le cose.
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«[…] ora lei avrebbe dovuto mostrargli il contrario, cioè l’estasi. E le foto sarebbero venute mille volte meglio, se l’avesse vissuta davvero.» (Shooting). In molti racconti lei scrive di fotografia, in Shooting, per esempio, ma anche in Nozze di plastica, o in Il tuo modo di dirlo al mondo, e anche lo sguardo, in certi passaggi descrittivi, nei particolari delle espressioni e dei volti, dei paesaggi, tradisce la sua passione per la fotografia. In che modo questo influenza la sua scrittura?
La fotografia è qualcosa che ti capita o che ti è capitata. Ogni foto è un tuo “io c’ero”. Per me la scrittura deve rispondere allo stesso imperativo; deve essere magari una rielaborazione o una sublimazione di qualcosa che mi è capitato o che è capitato ad altri mentre io ero, comunque, testimone oculare o auricolare. Inoltre deve essere una sorta di epifania, un momento sottratto al tempo, isolato e separato da ciò che gli sta intorno. Ultimamente sto fondendo le mie due passioni in un progetto poetico intitolato Foto che non ho scattato, in cui sto trasformando in versi le immagini che non sono riuscito a fermare magari semplicemente perché non avevo la macchina in mano o per problemi tecnici. È una sorta di compensazione per le apparizioni di senso che mi sono perso.
«Il bambino aveva iniziato a rispondere a tic. Aveva contratto la bocca, alzato il sopracciglio.» (La pallottola d’argento). I suoi personaggi sono molto caratterizzati e spesso la fisicità appare ben delineata, ma presenti sono anche i lapsus, i difetti fisici, quel che disturba l’immagine perfetta. Come nascono i suoi personaggi? E che rapporto hanno con il fallimento?
Ho sempre pensato che uno dei miei grandi limiti sia quello riguardante la descrizione tradizionale. Probabilmente sono un discreto caricaturista ma un pessimo ritrattista. Mi piace sottolineare il tratto distintivo che caratterizza il personaggio, farlo vedere come l’ho scoperto io, piuttosto che per come è realmente. In particolare, dei personaggi, mi attrae il difetto, visto che “per ogni punto debole ho un debole”. Il lapsus, d’altronde è il punto debole per antonomasia dato che nessuno, nemmeno i maniaci del controllo, possono impedirlo o fermarlo. Tra l’altro la mia tesi di laurea indagava i lapsus freudiani in Pirandello. Numerosissimi.
«Tu non hai solo piantato un albero. Tu ti sei piantato.» (Lei è il papà di Federica?). È uno dei tanti passaggi in cui lei fa un uso sapiente del cortocircuito linguistico, dei doppi sensi ecc., ma non lesina nemmeno momenti di poesia. Lei ritiene ci sia qualche rapporto tra umorismo, poesia e la sua scrittura?
L’umorismo è la grande dote di indagare e svelare ciò che non va in certe persone o in certe situazioni comiche. Quello mi è sempre appartenuto e mi appartiene tuttora. Purtroppo invece l’ironia, anzi l’autoironia, che è stata una mia grande freccia nell’adolescenza, la sto progressivamente perdendo, sia come persona sia come autore. Ridere di sé, guardandosi allo specchio della giusta distanza, raccontandosi dopo un po’, ma al momento e dalla prospettiva esatta, è questa, a mio avviso, l’ironia. Una sorta di magia che padroneggiavano, come pochi, Svevo e Calvino e, più recentemente, Philip Roth.
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«Ero certo che stavo morendo, che stavo sempre più morendo e mi sembrò di intuire che la morte non era un istante, ma un processo» (Il prescelto). Ci racconti il suo processo di scrittura: prima di diventare il prodotto che poi andrà venduto, cosa accade nel frattempo? E rispetto al prodotto commerciale come vede il rapporto tra commerciabilità del prodotto e processo artistico?
Solo una volta mi sono messo a scrivere un libro chiamiamolo generazionale, consapevole che avrebbe potuto vendere e, anzi, perché vendesse e, infatti, non ha venduto niente. Sono talmente tante le variabili che decretano il successo di un libro che non vale la pena tradire se stessi per inseguirle, anche perché se pubblichi oggi con una piccola/media casa editrice, con un piccolo ufficio stampa, la distribuzione che è quella che è, e non sei in giurie di premi o in redazioni o amante di o amico intimo di è quasi impossibile superare le duemila copie, sicché meglio dedicarsi al processo della genesi del dar vita a parole a se stessi. Diceva Eluard: «Creato, io creo: è la sola giustizia, il solo equilibrio». Al di là dei lettori, di cui ho comunque bisogno, scrivendo mi faccio giustizia da solo.
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