Un inno alla solitudine. “Il giardino di Elizabeth” di Elizabeth von Arnim
Non si può mettere fretta ai fiori per farli fiorire. E neanche ai romanzi perché sviscerino la loro storia. È questo il pensiero che ti sorprende mentre leggi Il giardino di Elizabeth di Elizabeth von Arnim, edito da Fazi, nella traduzione di Sabina Terziani.
Nella sua essenza immediata, il lettore ha di fronte una giovane donna inglese, sposata da cinque anni con un prussiano devoto alla sua patria, sradicata dal suo paese di origine. Il trasferimento non segue le geografie delle città, Elizabeth, la protagonista, sembra muoversi da un intuibile fuori pregresso, inglese – poco frequentato – a un dentro attuale, tedesco, restio ai futili convenevoli e discussioni riguardanti la cuoca.
Il romanzo ha il passo scandito dal fiorire e dall’appassire dei fiori. Ma il ritmo naturale e lento del fluire del racconto non pregiudica l’assaporare di questa storia di altri tempi. Il romanzo risale nella sua prima stesura al 1898 e con buona probabilità si è di fronte a un’opera autobiografica, apparsa inizialmente in forma anonima. Infatti, la protagonista del romanzo scrive in giardino tra fiori pronti a inebriare il mondo con il loro profumo e ricorda spesso al lettore che ciò che accade, accade in quell’ora descritto dall’autrice. E mentre scrive, a rallegrare le sue giornate ci sono le tre figlie, la bambina di aprile, quella di maggio e quella di giugno. Interrompe questo flusso dei giorni, in modo più o meno gradito, la visita delle amiche Irais e Minora, la prima una brillante compagna di conversazioni, la seconda semplicemente tollerata.
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Elizabeth sente di condividere poco con gli altri esseri umani, anzi, a tal proposito, dice:
«le bimbe in fondo rappresentano una delle poche cose che ho in comune con la massa delle persone, poiché pare che tutti abbiano figli».
La donna, infatti, non ama molto la compagnia delle persone. Ha lasciato volentieri la città per trasferirsi in questo vecchio convento di proprietà del marito, ovvero de “l’uomo della collera”. Non solo la scelta di vivere in campagna ha scombussolato l’animo dei conoscenti, ma il fatto che Elizabeth legga e sia appassionata di giardinaggio scava ulteriori abissi tra la donna e il resto del mondo. Anzi, la sua passione per il giardino è così intensa che l’aristocratica signora si trattiene a stento dal togliere l’incarico al giardiniere di piantare i nuovi fiori per farlo da sola; e lo farebbe, se solo la cosa non destasse troppo clamore.
La riflessione in merito di Elizabeth è tagliente, ironica e filosofica. Pensa, in riferimento al giardinaggio:
«Perché me ne vergogno? Non è certo un’attività elegante e fa sudare, benché sia un lavoro benedetto, e se nel Paradiso terrestre Eva avesse avuto una vanga e la capacità di usarla, ci saremmo risparmiati la vicenda incresciosa della mela.»
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A livello di trama, il romanzo appare come un inno alla solitudine, all’introspezione, alla creatività in sintonia con la natura. È quel viaggio a cui ognuno di noi, prima o poi, dovrebbe dedicarsi per farlo ed esplorare le terre della propria mente e delle proprie emozioni.
La solitudine per Elizabeth ha il sapore del piacere totalizzante:
«La mia dolce metà è condiscendente, e deve inoltre aver vagamente considerato che dopotutto qualcuno doveva pur prendersi cura della dimora, perciò ha acconsentito a viverci, almeno per un certo periodo. A quel momento sono seguite sei settimane di totale beatitudine, a cavallo tra aprile e giugno, in cui sono rimasta nella proprietà da sola».
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L’attuale edizione, pubblicata da Fazi, risulta essere la versione integrale del romanzo ottocentesco, apparso ai tempi in forma anonima. Pur riemergendo da un passato, in qualche misura lontano, le parole di Elizabeth echeggiano fresche e presenti, specie quando descrive se stessa riflessa negli occhi dei suoi conoscenti:
«La gente qui intorno è persuasa che io sia, per metterla nei termini più gentili possibile, oltremodo eccentrica; perché si è sparsa la voce che passo la giornata fuori all’aperto con un libro, e che occhi mortali ancora non mi hanno visto cucire o cucinare. Ma perché cucinare, quando puoi trovare qualcun altro che cucina per te?»
Per la prima foto, copyright: Dung Anh.
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