“Tra sogno e realtà”, la vita degli ebrei tedeschi in Palestina fino al 1948
A Gerusalemme forse volerebbero meno coltelli, pietre, razzi, se la politica leggesse Tra sogno e realtà, il saggio di Claudia Sonino pubblicato da Guerini e Associati. E la memoria non soffrirebbe l’inquinamento di chi la usa senza riguardo.
L’autrice ci presenta le vite di sei ebrei tedeschi in Palestina tra il 1920 e il 1948, prima della proclamazione dello Stato di Israele, negli anni del Mandato Britannico. Sei intellettuali europei, tedeschi, ebrei che, per volontà o necessità, spinti dal sogno di conciliare ebraismo culturale e diaspora oppure cacciati dalla persecuzione di Hitler, riorganizzano le proprie vite lungo una striscia di terra divina e contesa. Uomini e donne in cerca di dialogo. Nel sionismo stesso, alcuni; dialogo come lavoro su di sé, per riappropriarsi della tradizione ebraica, di una lingua che non si parlava più, di una letteratura dimenticata o sconosciuta. «Diventare sionisti, in quest’ottica, era paragonabile al diventare artisti», questo pensava l’ebreo praghese Hugo Bergmann intorno al 1910. L’identità nazionale era la ricerca di un sentimento ancestrale, dell’appartenenza a una comunità, non a uno Stato. L’unico nazionalismo possibile sarebbe stato soltanto culturale. Ai giorni nostri il sangue sparso, le lacerazioni irriducibili ci impediscono di immaginare che qualcuno, pochi decenni fa, abbia pensato alla costruzione d’Israele in questo modo, come centro spirituale. È un esercizio di incredulità cercare di assimilare quei primi ebrei, che comprarono agli arabi le terre non da colonizzatori ma come portatori di cultura, alla situazione attuale. Scrive Bergmann nel 1910: «La prova del fuoco del carattere veramente ebraico della nostra colonizzazione sarà il rapporto con gli arabi [...]. Un confronto pacifico con loro per noi è una questione vitale. Le nostre scuole devono aprirsi agli arabi, nei libri e nei giornali dobbiamo parlare nella loro lingua, una società arabo-ebraica dovrebbe impegnarsi a rendere fruttuose le profonde comunanze storiche e sostanziali dei due popoli in direzione di una proficua vita comune».
Dialogo e tolleranza, quindi. E poi cercare un senso alla diaspora, mitigare l’affanno del viaggio continuo. A dare una risposta ci prova Gershom Scholem, in questa galleria di ritratti esemplari composta con rigore e amore da Claudia Sonino. Studioso per eccellenza della mistica ebraica e della Cabbala, Scholem ribadisce che gli ebrei son fatti per la comunità, non per lo Stato; tuttavia gli scontri con il sionismo apertamente nazionalista di Jabotinskij arrivano presto, e con loro lo sconforto profondo della disillusione e della perdita. Il popolo ebreo rinuncia al tikkun, alla riparazione, al rinnovamento e alla catarsi di se stesso; rinuncia a garantire l’imortalità storica del genio ebraico per assicurare l’esistenza di una o due generazioni di ebrei sul suolo di Eretz Israel. Utopia ricolma di presunzione, perché per Scholem l’essenza del popolo ebraico sta nel «non arrivare mai del tutto a casa», essere sempre e ovunque in cammino.
Il problema della lingua, poi, è sentito in modo viscerale da quasi tutti gli intellettuali. E se per Scholem era importante non secolarizzare interamente l’ebraico inteso come lingua di santità, non perdere la consapevolezza dei Nomi che si evocano attraverso le parole, per gli altri, che scrivevano in tedesco, che intendevano la cultura in modo completamente europeo, l’obbligo di imparare l’ebraico per stabilirsi in Israele è vissuto come una specie di ritorno al ghetto. È il caso di Gabriele Tergit, giornalista scomoda nella Germania di Weimar per l’impronta illuminista-liberale con cui rivestiva il proprio impegno intellettuale, che approderà in Palestina negli anni Trenta per circostanze familiari, più che per vera volontà di lasciare l’Europa. La Tergit ebbe una difficile acclimatazione in Palestina, avendo vissuto fino a quel momento un ebraismo liberale, emancipato, tedesco ma soprattutto occidentale. Denunciò di continuo le posizioni del sionismo più radicale, l’imposizione fanatica della lingua ebraica, il trattamento che gli ebrei orientali riservavano agli ebrei tedeschi al loro arrivo, facendoli sentire ospiti indesiderati. Quella lingua che per Bergmann e Scholen era la fiamma da riaccendere nel nome della rinascita culturale ebraica, per la scrittrice è la più potente arma di discriminazione tra gli ebrei orientali e russi, fautori della resurrezione nazionale per scelta, ed ebrei occidentali, che si recano a Israele per necessità, per mettersi in salvo da Hitler.
Gli ebrei occidentali vengono esclusi dalla comunità e vituperati dai “fratelli” orientali anche quando mettono a disposizione il loro sapere, la loro etica del lavoro, la loro ricchezza materiale. Era il modo degli orientali, ritenuti a lungo dagli occidentali privi di educazione estetica, di rendere loro pan per focaccia, facendoli passare per esseri improduttivi e vergognosamente assimilati alla cultura occidentale. Ebrei in lotta tra fazioni e in lotta con gli arabi da prima della fine del Mandato Britannico; viene spontaneo chiedersi se anche alla parola “pace” sia stata assegnata una peculiare galut, una diaspora. La Tergit non guarda con tenerezza agli arabi, ma nemmeno ai sionisti e scaglia una prosa di fuoco contro chi pensa di mettere in discussione i valori del suo ebraismo tedesco lungo cinque generazioni. Donna indomita, unica figura, tra le straordinarie traiettorie vitali racchiuse in questo libro, che non capitola alla tristezza, non si modella all’accettazione e prima che tutto ciò sconfini nella solitudine fa ritorno in Europa, senza rimpianti.
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La solitudine, infine. Cantata da Else Lasker-Schüler, una delle maggiori poetesse in lingua tedesca del Novecento. Solitudine vissuta come frantumazione interna quando l’immagine della Terra offerta dalla Bibbia non corrisponde alla realtà in cui ci si trova a vivere. Per questi intellettuali, celebrati in Europa, si traduce nell’affronto di un’accoglienza tiepida in Palestina; nell’impossibilità di svolgere un lavoro all’altezza della loro preparazione perché limitati dalla difficoltà di imparare l’ebraico in età adulta; nella ripercussione sul loro benessere economico, perché costretti a vivere di sussidi o della generosità di amici più fortunati, come accade a Else; obbligati a fare mille lavori, come Paul Mühsam.
Solitudine e straniamento che anche Arnold Zweig si trova ad affrontare. Scrittore di successo, amico di Freud e appassionato lui stesso di psicanalisi, porta in sé l’espressione di un nazionalismo umanista, etico, del miglior sionismo tedesco. Eppure non basta per forare il muro di gomma costruito dall’isolamento linguistico; un limite che diventa psicologico e politico. È l’essere a casa senza esserlo, pur vivendo stabilmente nel Paese. È il vero muro del pianto, scrivere fogli e fogli nella propria lingua madre, il tedesco, che non si incastrano nella parete della società ebraica, dove l’acuirsi del nazionalismo piega definitivamente il sogno del sionismo umanista. È di Zweig l’affermazione più drammatica di uno scrittore che vive in patria: «Qui devo condurre un’esistenza tradotta». E ancora: «Lo spirito non è un lusso, dove esso manca la vita muore». Sfuggiti al fascismo, gli ebrei tedeschi che riescono a raggiungere la Palestina sembrano obbligati ad accettare un altro giogo.
La necessità ha una forza propulsiva che finisce per spezzare le reni più solide. Lo sa Paul Mühsam, avvocato, quando arriva in Palestina con la famiglia nel settembre del ’33, a cinquantasette anni, dopo una vita piena di realizzazioni personali ottenute con grande sacrificio. Nell’esilio Mühsam si reinventa, come toccava a buona parte degli intellettuali che lì giungevano, con tutte le limitazioni che la situazione personale, abbinata a una scarsa conoscenza dell’ebraico, imponeva loro. L’avvocato Mühsam apre una pensione, fa il mediatore di terreni e ipoteche, l’inserzionista, il commerciante di francobolli, vivendo di tutto questo a stento.
Ma è proprio nel vivere senza troppe aspettative che si scioglie quel nodo nobilissimo e tuttavia astruso con cui Bergmann e Scholem, solo pochi anni prima, avevano legato la loro concezione del sionismo. Poter vivere è tutto ciò che Mühsam apprezza; essere un uomo libero, tenere la schiena dritta. Da giurista, riconosce che «non esiste un diritto morale» ad occupare la Palestina araba, per quanto il Mandato britannico avesse riconosciuto una “connessione storica” tra gli ebrei e la Terra. Ritiene che l’idea nazionalista sia «l’origine di ogni male», dei coltelli, le pietre e i razzi che la lettura di questo saggio di Claudia Sonino potrebbe forse trattenere nell’aria. Una speranza Tra sogno e realtà.
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Commenti
mi sembra inappropriato inserire la pubblicità di un gioco online che ha come protagonisti soldati tedeschi della II guerra mondiale, su una pagina che pubblicizza un saggio sugli ebrei in palestina...
Salve anonimo,
la ringraziamo per il commento.
La pubblicità a cui lei fa riferimento è inserita automaticamente da GoogleAdSense sulla base di criteri scelti in autonomia dal sistema e dipendenti da vari fattori legati all'utente e non a noi, come ad esempio precedenti ricerche effettuate su determinati temi o oggetti. È lo stesso criterio per cui se cerco un libro o un elettrodomestico su Amazon, poi lo ritrovo pubblicizzato su Facebook o su altri siti che hanno GoogleAdsense.
È un sistema di pubblicità personalizzata, detto in parole povere.
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