Storia di una poliziotta fuori dagli schemi. “Le parole di Sara” di Maurizio De Giovanni
Sara Morozzi fa il suo ritorno in libreria attraverso le pagine del nuovo romanzo di Maurizio De Giovanni: Le parole di Sara (edito da Rizzoli). A spartire il ruolo di protagonista con lei c’è Teresa Pandolfi, che, nonostante la sua esperienza da veterana nell’investigazione, si ritrova costretta a chiedere aiuto. Un ragazzo, poco più che ventenne, scompare e questo la destabilizza tanto da spingerla a incontrare in segreto Sara, la donna che per amore ha abbandonato ogni cosa e che ora, priva del suo lavoro nella polizia, si ritrova a leccarsi le ferite per Massimiliano: l’uomo adorato, conosciuto tardi e scomparso troppo presto.
Il motivo di questo incontro è inusuale, almeno per Teresa: l’amore. Sì, perché lei è sempre stata la donna cinica e disinibita che era cacciatrice di molti e preda di nessuno. Eppure, con Sergio, il giovane ricercatore che è stato affidato alla sua sezione, è diverso. Scatta qualcosa e questo inaspettato legame non fa che accentuare il tormento e il senso di colpa di lei che, forse per il troppo amore, si è lasciata andare a qualche confessione di troppo e a elargizioni non previste. Esclusi gli organi ufficiali per la licenziosità della vicenda e non solo, non resta che Sara. Del resto, chi meglio di lei? Le sue capacità sono indiscusse. Attraverso poche occhiate riesce a leggere alla perfezione quei segnali nascosti che sfuggono ai più: il linguaggio del corpo. Un tremore di troppo nella voce o un gesto brusco sono indicatori importanti per lei. Una donna che parla poco di sé e con gli altri, ma sa leggere il mondo come nessuno.
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Nel “mondo” è compresa anche Teresa, l’ex collega innamorata e bisognosa di aiuto. Capirlo è un attimo: il suo corpo parla chiaro quando le due s’incontrano di nascosto. A parlare ancora meglio, sono poi i suoi occhi pesti e il suo terrore per la scomparsa di uno stagista troppo intraprendente, Sergio.
Così Bionda e Mora - questi i loro nomi di battaglia – s’incontrano e, in un certo senso, “invertono i ruoli”. Sara, che per amore ha sempre rischiato tutto, ora è focalizzata sul lavoro nella convinzione che solo questo possa salvarla dalla depressione che si è aperta dopo la morte del compagno. D’altra parte, Teresa, cui era noto solo l’amore passionale e lussurioso, ha scoperto un lato del tutto nuovo di questo sentimento: tenero, dolce e apprensivo. Il confronto, allora, non è solo quello di due amiche o di due colleghe, ma di due donne che hanno fatto esperienze diverse, che sono cambiate e che, in ragione di ciò che sono e sono state, ora possono aiutarsi a vicenda. Sara non accetterebbe il lavoro investigativo che Bionda le propone se non avesse amato davvero qualcuno; ma soprattutto non si risolleverebbe dallo stato quasi allucinatorio in cui si trova se non fosse per l’urgenza e la pressione a cui viene sottoposta dall’ex-collega.
È la sete di giustizia dell’amica a portarla a ripristinare dei legami e a trovare insoliti, eppure efficacissimi, collaboratori in Viola e Pardo. La prima è la madre di suo nipote, “vedova” prematura e bisognosa di rimettersi alla prova con il mondo; il secondo è il poliziotto che ne è innamorato.
In questo modo alle forze dell’ordine ufficiali e corrotte si contrappone un terzetto di outsider: la madre troppo giovane per restare a casa inattiva ed essere solo “la balia” di suo figlio, il poliziotto marginalizzato dai meccanismi del potere e Sara, che da outsider ci è nata. A loro – e a Sara soprattutto – spetta, come nelle migliori fiabe, il compito di ripristinare l’ordine incrinato, di riportare la luce.
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Eppure, se è lecita una critica a un grande narratore quale indubbiamente è Maurizio De Giovanni, la facciamo. Già in un racconto precedente, contenuto nell’antologia Sbirre, Sara figurava allo stesso modo: il suo essere in pensione e fuori dai giochi ufficiali le consentiva, anche lì, di muoversi agevolmente e scoprire la verità. Fin qui tutto bene. Il problema sorge quando, in entrambe le vicende, Sara diventa una vendicatrice che, constatata l’inerzia del sistema, fa giustizia per sé (Sara che aspetta in Sbirre) e per gli altri (Le parole di Sara) a colpi di pistola. Non che non debba farlo, ma ripetere i moduli narrativi rischia di stancare il lettore e di privare questa narrazione della verve che invece la caratterizza.
Cosa dobbiamo aspettarci da Sara in futuro? Altre pistolettate?
Per la prima foto, copyright: Kyle Broad su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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