Stare sempre dalla parte delle minoranze: la sfida editoriale di «QCode Magazine»
Raccontare la guerra è uno degli esercizi giornalistici più difficili, perché facilmente si cade nella tentazione della retorica facile o nella ripetizione di slogan triti e ritriti. Parole come “tutela dei diritti umani”, “autodeterminazione” suonano come contenitori vuoti di discorsi senza significato, se non inseriti adeguatamente in un contesto studiato, conosciuto, vissuto dall’interno e non dall’esterno, come oggi quasi sempre accade. Siamo lontani dalle corrispondenze di Tiziano Terzani dall’Indocina o da quelle vetero-romantiche di Ernest Hemingway dal fronte spagnolo. Oggi la parola d’ordine è “news management” e fu la prima guerra del Golfo a portarla in auge. Che senso ha oggi parlare di giornalismo di guerra o di reportage dai luoghi di guerra? Ne parliamo con Christian (Chicco, per gli amici) Elia, giornalista, blogger e appassionato caporedattore di una nuova avventura editoriale «QCode Magazine» che porta avanti questo mestiere quasi come una vocazione, per dare voce a chi spesso non ne ha e per dare risposte a chi si pone qualche domanda.
Ci racconti come è nata l'idea di QCode Magazine?
Molti dei fondatori dell’avventura editoriale «QCode Magazine» arrivano dalle precedenti esperienze di «PeaceReporter» ed «E-il mensile». Quando il progetto è stato chiuso, non ci siamo voluti arrendere, convinti che il giornalismo di approfondimento abbia ancora un ruolo da svolgere. Abbiamo scelto i linguaggi che ci sono noti: il giornalismo narrativo e multimediale, una linea editoriale che si ispiri alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, uno stare sempre dalla parte delle minoranze, in direzione ostinata e contraria.
La vostra linea editoriale recita «Diritti, geopolitica, cultura»: perché in Italia si fa sempre più fatica a parlarne? E come pensate di portare avanti il progetto senza pubblicità?
Non manca solo la pubblicità, ma qualsiasi forma di finanziamento. Lavoriamo tutti volontariamente. Eppure, tra redattori e collaboratori, sono decine le persone che concorrono a dar vita a questo magazine, segno che proprio la cultura, la difesa dei diritti e l’analisi delle logiche che generano i problemi e i conflitti del mondo sono ancora necessari. L’assalto ai diritti acquisiti in anni di lotte per l’emancipazione sociale è furiosa, anche se viene chiamata crisi: in molti si chiedono cosa non ci raccontano, cosa ha portato a questo deserto. A loro ci rivolgiamo, invitandoli a partecipare, per un giornalismo condiviso che vede nei professionisti un elemento di garanzia per una partecipazione collettiva, comunitaria. Una comunità che sia pronta a sostenere una voce che deve guadagnarsi la fiducia dei lettori ogni giorno. Lo farà con il tesseramento per la nostra associazione culturale e scaricando i nostri numeri speciali che sono in arrivo.
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Il giornalismo narrativo ha avuto grandi maestri in passato: quale lezione può essere attuale ancora oggi per le giovani leve? E quali sono, secondo te, i fondamentali da conoscere del giornalismo narrativo per chi vuole intraprendere questa strada?
Esiste, da decenni, come dice il grande collega Mariusz Szczygiel, «Una narrativa di taglio documentaristico che chiamiamo reportage letterario. Gli autori possono ricorrere a tutti i mezzi artistici degli scrittori, tranne uno: non possono invitare niente». In modo molto meno nobile del giornalista polacco, io credo che di fronte a un episodio ci siano tre narrazioni. Se un gatto salta su un albero, si può dire questo e basta, facendo cronaca. Si può allargare l’obiettivo, raccontando il contesto, le premesse e le conseguenze. Questo lo chiamo giornalismo narrativo. Si può scrivere come ci si è sentiti davanti al salto del gatto. Questo non è nulla. Ecco, troppo spesso si confonde la “panna montata” con il giornalismo narrativo. La cronaca, al tempo di Twitter, è in costante ritardo. La personalizzazione dello scrivere è un male per il giornalismo, perché non siamo noi la notizia. Una narrazione lenta, approfondita, che indaga le cause e non solo gli effetti, è quello di cui si sente il bisogno. Consigli non ne ho, ma di sicuro non bisogna scrivere di sé, ricordando sempre che il nostro è un servizio pubblico. Per informare.
Oggi il web è fondamentale per fare contro-informazione rispetto alle testate giornalistiche più omologate: ma come si fa a interessare e ad attrarre il lettore italiano, forse un po' troppo distratto? Quanta strada bisogna ancora percorrere per sensibilizzare l'opinione pubblica senza ricorrere alla facile arma del sensazionalismo?
Sarò impopolare, ma credo che sia vero il contrario: il giornalismo ha perso credibilità per l’eccesso di sensazionalismo e i lettori se ne sono accorti. Non basta la crisi economica a spiegare il crollo delle vendite di periodici e quotidiani. Per troppi anni sono stati commessi molti errori, rendendo confuso il confine tra fiction e informazione, tra informazione e divertimento. Ecco, è tempo di tornare a informare, verificando le fonti. Con serietà. Riconquistandosi la fiducia dei lettori, oggi tentati dal grande web, che è una frontiera di libertà, ma che senza un filtro professionale rischia di essere un macro blob di notizie non verificate.
Dove sta la verità quando si parla di guerra e dei conflitti in atto nel mondo?
Nel prima e nel dopo. Perché durante, da sempre, saranno sempre e solo i civili a pagare. Da anni si parla di un paese solo quando parlano le armi, senza mai raccontare (per tempo) chi lavora alla guerra, utilizzando spesso i media allo scopo, e le conseguenze dei conflitti. Oggi, in Afghanistan, le donne hanno il burqa e in Iraq si muore ogni giorno. Per quanto ancora potremo fingere di non vedere l’inganno delle guerre?
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