Simone Lenzi: «Umberto Eco meritava il Nobel per la Letteratura»
Non si poteva fare a meno di iniziare la chiacchierata-intervista con Simone Lenzi parlando di Umberto Eco. La scomparsa del grande semiologo e scrittore era avvenuta solo poche ore prima. «Non ho mai conosciuto Eco di persona. Mi sono imbattuto nella sua scrittura per la prima volta con Diario minimo – avrò avuto quindici anni – poi sono passato a Il nome della rosa, Il pendolo di Foucalt, Il cimitero di Praga. Imperdibile anche La bustina di Minerva tutte le settimane su «L’Espresso». Eco è stato l’unico a sposare un’erudizione mostruosa con la capacità di creare di fictio letteraria, svelando quali sono i meccanismi del romanzo, senza distruggerli e facendo in modo che il lettore ci rimanesse invischiato. Il grosso rimpianto è che Umberto Eco non abbia vinto il Nobel per la Letteratura».
E ora veniamo al motivo dell’intervista. Simone Lenzi, cantautore, scrittore, frontman dei Virginiana Miller, indossa le vesti di docente in un “Seminario sulla Canzone”, organizzato a Poggibonsi (SI) dall’associazione La Scintilla. Vincitore della Targa Tenco 2014 nella sezione “Miglior Canzone” con il brano Lettera di San Paolo agli operai e del David di Donatello 2012-2013 nella categoria “Miglior Canzone Originale” con il brano Tutti i santi giorni, Lenzi è noto anche come scrittore: dopo La generazione (Dalai Editore), da cui è stato tratto proprio il film di Paolo Virzì, Tutti i santi giorni che affronta il tema di una coppia alle prese con il desiderio di avere un figlio, è stata la volta di Sul Lungomai di Livorno e Mali minori (Laterza). Non c’è che dire, ama “lavorare con le parole”, per cui entrambe le anime di paroliere e di autore sono come “due facce della stessa medaglia”. Inoltre, in questo periodo Lenzi sta rileggendo il De Catilinae coniuratione di Sallustio e ciò non stupisce, vista la sua assidua frequentazione con i classici greci e latini. Nel seminario, tenuto anche alla Scuola Holden di Torino, c’è spazio per la definizione di canzone, per lo studio del rapporto fra testi e musica, per parlare di “madrigalismo”, ovvero dell’attitudine più autentica alla scrittura dei testi per musica.
Che momento è questo per la canzone italiana?
C’è una sapienza diffusa, in generale. La qualità degli arrangiamenti è sempre molto alta. Non credo che stia male, escono spesso cose buone. Se penso a Sanremo appena trascorso, in realtà, ho preferito quello dell’anno scorso per quanto riguarda le canzoni, ma è un’opinione assolutamente personale. Ciò che manca in Italia è certamente una bibliografia utile sulla canzone in quanto forma d’espressione. L’unico che mi sento di consigliare è un libro di qualche tempo fa di Gianfranco Salvatore Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato. Arte e linguaggio della canzone moderna edito da Castelvecchi, anche se quasi sempre, quando incontriamo libri di musica, troviamo biografismi o aneddotica, mentre non c’è studio degli strumenti analitici adatti.
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Forse potrebbe scrivere lei qualcosa del genere?
In effetti sì, ci stavo pensando da qualche tempo e forse questo seminario mi ha dato proprio lo spunto. Direi che un libretto potrebbe essere interessante, posto nell’ottica di una guida all’ascolto.
In Italia l’ear training, l’allenamento all’ascolto, come materia di studio è alquanto carente…
Beh sì, perché da noi il fenomeno “canzone” viene visto o soltanto come qualcosa di musicale o all’estremo opposto di “letterario”. Manca l’attenzione alla canzone vista nel suo insieme che è più della somma delle due parti, ovvero di testi e di musica.
La canzone italiana come si colloca rispetto alla tradizione della chanson francese e a quella della musica anglosassone?
È una bellissima domanda. Per rispondere provo a pensare a quelli della mia generazione che avevano presente due tradizioni, quella dei cantautori italiani e quella che proveniva dall’Inghilterra, con l’euforia della produzione dei primi anni Ottanta. È stato necessario fare un’opera di traduzione e una fusione, una sorta di rielaborazione, un po’ quello che ha fatto la scuola genovese rispetto a quella francese, oppure – e qui mi viene un esempio dell’angoscia dell’influenza – dell’ingombrante punto di riferimento che è stato Bob Dylan per Francesco De Gregori. Bisogna tradurre gli stilemi e riversarli nel proprio personale mondo.
Da lettore forte, che cosa la colpisce in un romanzo?
Innanzitutto, cerco di leggere il libro in lingua originale, se è naturalmente una lingua che conosco. Cerco soprattutto senso del ritmo e della prosa. Ed è anche ciò che riguarda una sceneggiatura, se non succede qualcosa ogni tot, lo spettatore, così come il lettore, si alza e se ne va. Non è solo uno specifico letterario.
Per concludere, ritorniamo da dove siamo partiti e cioè da Umberto Eco che recentemente aveva dichiarato che Internet aveva dato diritto di parola agli imbecilli. Lei è d’accordo con questa affermazione?
Sono assolutamente, totalmente e profondamente d’accordo con l’opinione di Eco in merito al fatto che Internet avesse dato voce ad una legione di imbecilli, ovvero a tutte quelle persone che al bar sarebbero state zittite immediatamente. Ovvio che si tratta di un lamento che non prevede alcuna contromisura, ma è giusto che sia così. Qualunque cura sarebbe peggiore del male, e penso che su questo sarebbe d’accordo anche lui.
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