“Signor morte” di Graeme Gibson
Uscito per la leccese Besa Editrice, nella collana Nuove Lune, e tradotto da Simone Garzella, Signor morte del canadese Graeme Gibson (classe 1934, marito di Margaret Atwood), non è certamente un cattivo romanzo. La storia di Robert Fraser, romanziere cinquantaseienne deluso e disincantato, alle prese con la scrittura di due storie, mentre cerca di venire a patti con la propria, di storia, non è nulla di innovativo, nulla per cui gridare al miracolo. E tuttavia funziona, nella misura in cui presente e passato di Fraser si intrecciano tra loro e si innestano nell'atto dell'invenzione, attraverso il mezzo, quasi alchemico, della scrittura. Simpson e Dunbar, i protagonisti delle storie di Fraser, il primo incredulo donatore di sperma, il secondo atipico Ulisse, novello Leopold Bloom di joyciana memoria, sono irrimediabilmente proiezioni di tensioni irrisolte dell'autore, in questo caso anche (in)volontario biografo di se stesso.
La stessa voce narrante, parlando dei propri autori di riferimento, nomina «persone come Lowry e Carpentier, Beckett, Konwicki, Bruno Schultz, e Joyce», questo poco dopo aver affermato: «Mi sembra che la scrittura abbia a che fare più con il leggere che con la vita». Dunque, se qualcuno diceva che «la vita la si vive, o la si scrive», in questo ambito la vita vissuta incide sulla vita scritta, e quest'ultima si ripercuote sulla prima, talvolta smascherandone contraddizioni, o riportando alla luce la mancata risoluzione di contrasti.
Siamo perciò in presenza di un “duro campo di battaglia” (che non è il letto, come nel titolo di un romanzo della scrittrice milanese Una Chi, al secolo Bruna Bianchi, di alcuni anni addietro); duro ma allo stesso tempo quasi impalpabile, costituito dall'assemblaggio delle parole, dall'arduo e periglioso processo che prevede la loro messa in concatenazione. Ed è proprio questo difficile compito, che viene messo in grande evidenza nel romanzo di Gibson: la scrittura alterna distensioni e involuzioni, talvolta perdendosi in descrizioni dettagliate, che durano pagine, talaltra risolvendo dialoghi serrati con tocchi brevissimi.
L'alternarsi delle tre storie ha molto di cinematografico: come in un montaggio alternato (o parallelo, se si preferisce) Fraser, Simpson e Dunbar sono tre uomini in uno, o uno solo triplicato. Quel che è certo, è che la creazione diventa uno strumento quasi taumaturgico, con cui si prova a compiere il miracolo della riconciliazione con la propria esistenza e con i fatti che l'hanno e che potranno caratterizzarla; e allo stesso tempo, dal punto di vista dell'“autore-Gibson” una possibilità di critica a certa letteratura, della quale, probabilmente, lo stesso Fraser si è reso complice nella sua attività di scrittore.
Non c'è dunque miglior conclusione, per questa riflessione, delle parole che dice il protagonista (o almeno uno, dei protagonisti) di Signor morte, a un certo punto del suo “pellegrinaggio”: «Il fatto è che a cinquantasei anni, sono irritato dalla letteratura che ti sfinisce spiritualmente».
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