Serena Vitale: «Basta con i gialli nella narrativa italiana»
Parte da uno dei grandi misteri del Novecento Serena Vitale: il suicidio di Vladimir Majakovskij. Dopo anni di ricerche e di indagini, tra cospirazioni e spie – o presunte tali – tra depistaggi e brillanti intuizioni investigative, raccolte nel suo ultimo lavoro Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi), la nota docente di letteratura russa, pugliese di nascita, ma milanese d’adozione, di gialli e di intrighi ne sa davvero qualcosa. Per questo, nel corso della presentazione del libro avvenuta durante la rassegna “Letture d’Autunno”, curata dall’associazione “La Scintilla” di Poggibonsi (SI) e coordinata da Dario Ceccherini, afferma, a margine della serata «Basta con i gialli nella narrativa italiana!».
Ci spiega il senso di questa frase?
È molto semplice. Negli ultimi tempi la narrativa italiana è tutta un pullulare di commissari, investigatori, ispettori, e chi più ne ha più ne metta, con svariati accenti e regionalismi e tipicità territoriali e ognuno dei lettori si identifica in loro. Sinceramente, non credo che se ne avverta la necessità. Oltretutto, mi sembra un modo per falsare la realtà perché tutti i casi si risolvono sempre positivamente grazie alle brillanti intuizioni di questi personaggi, mentre come sappiamo la cronaca italiana è piena di casi irrisolti.
Il suo nuovo romanzo si intitola Il defunto odiava i pettegolezzi, riprendendo una frase dello stesso Majakovskij: un omaggio al Poeta, ma anche alla Storia…
Ho passato in rassegna con grande passione le testimonianze dei contemporanei, i giornali dell’epoca, i documenti riemersi dagli archivi dopo il 1991, come i verbali degli interrogatori, e naturalmente i «pettegolezzi» raccolti da informatori della polizia politica. Il suicidio di Majakovskij è uno dei grandi misteri della letteratura russa. Il titolo è estrapolato dalla lettera di commiato e mi sembrava racchiudesse il senso di un libro tutto fondato sui pettegolezzi e sulle dicerie che ruotano intorno a una vicenda che ancora oggi mostra qualche alone di mistero. E poi esprime tutta l’ironia tipica di Majakovskij e toglie ogni dubbio al fatto che l’abbia scritta lui, perché qualcuno ovviamente l’aveva insinuato.
Quali difficoltà ha incontrato per la stesura dell’opera?
Ho incontrato non poche difficoltà, soprattutto nel lavoro di ricerca. Ho letto tantissimi giornali e mi sono chiesta che cosa avrei fatto io stando lì e questa è stata la parte più lunga, quella di preparazione. La cosa più difficile è stato l’accesso ai materiali, spesso dipendevo dalla gentilezza delle dipendenti dei musei e degli archivi, letterari e non, delle biblioteche. Il libro è nato tra Milano, Praga e Mosca e l’ho scritto in cinque anni, seguendo tra l’altro anche la pista francese perché due delle spie che seguivano Majakovskij erano “residenti”, come si diceva in Francia. In Russia è sempre difficile accedere al materiale d’archivio.
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Qual è l’eredità culturale di Majakovskij, a 85 anni dalla sua morte?
Io faccio parte di quella generazione che per lungo tempo non ha apprezzato Majakovskij, dopo la consacrazione da parte di Stalin che lo fece assurgere a scrittore di regime. Ho scritto questo libro perché ne sentivo il bisogno per accostarmi alla verità e più mi avvicinavo, più mi toglieva il sonno ed esco provata da questa stesura ancora oggi. Mi sono resa conto, strada facendo, che era necessario inserire anche delle traduzioni per far vedere quale grandissimo poeta fosse e in quale equivoco, dettato dalla propaganda politica, fossimo caduti in tanti. Inoltre, per lungo tempo il delitto Majakovskij è stato considerato un caso giudiziario e, dunque, non è stata fatta giustizia sul suo valore di poeta. La consacrazione staliniana ha agito contro di lui. Con la sua morte finisce sicuramente l’avanguardia russa. Oggi in tanti si aspettano una voce nuova, e qualcosa può venire solo dalla poesia, in effetti, mentre tutti si aspettano il grande romanzo e francamente non è più epoca di grandi romanzi. Mi è piaciuto moltissimo l’ultimo premio Nobel alla scrittrice bielorussa Svjatlana Aleksievič, il suo ultimo libro è meraviglioso ed è un segnale, è sintomatico del fatto che in tutto il mondo europeo – non solo in Russia – non è più il tempo dei grandi romanzi, delle grandi tele, dei grandi affreschi. Non bisogna dimenticare che hanno dovuto recuperare cinquanta-sessanta anni di forme e di espressioni, dopo essere stati isolati dal resto del mondo.
Che atmosfera si respirava nella Russia di Majakovskij?
Tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta in Russia, l’euforia della Rivoluzione era bella che passata ormai e lui se ne era abbondantemente accorto. Dopo la guerra civile, la gente si stava riassestando nelle varie forme dell’esistenza quotidiana e questo aspetto angosciava tantissimo Majakovskij, insieme alla burocrazia e alle abitudini piccolo-borghesi.
Questo libro è anche un omaggio al suo maestro Angelo Maria Ripellino…
Non potevo farne a meno. Tutta la mia vita è stata segnata dall’incontro con Ripellino di cui noi studenti eravamo innamorati e che ci ha fatto innamorare per sempre della letteratura russa.
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