“Se la vita che salvi è la tua”. I consigli per il lettore di Fabio Geda
L’uso attento e preciso della metafora e della parola in Se la vita che salvi è la tua di Fabio Geda (Einaudi 2014)mi ha fatto pensare a Flannery O'Connor anche se non al racconto cui l’autore si ispira per il titolo del romanzo (La vita che salvi può essere la tua) bensì a Il cuore del parco. Non soltanto perché si svolge in un parco americano, dove inizia anche la storia di Fabio Geda, ma perché, come nel racconto della O’Connor, il vero protagonista dell’azione non è una persona, quanto la sensazione che questa persona porta con sé. Il protagonista del quinto romanzo di Geda, Andrea Luna, passa da un luogo all’altro alla ricerca di un nuovo significato per una vita che non è quella che desiderava e si aspettava. Un’inquietudine che cattura subito il lettore perché è quella che oggi in molti viviamo e respiriamo.
Mi piacerebbe iniziare la nostra intervista con Fabio Geda proprio da questa inquietudine chiedendogli se è anche la sua.
L’inquietudine di Andrea Luna è certamente la mia, ma è anche generazionale. Gli scrittori sono dei radar che assorbono sensazioni e bisogni dalla società per poi trasformarli in storie. Da tempo sentivo intorno a me una forte inquietudine, guardando ai miei amici e alla generazione dei 35-45enni di oggi. Siamo una generazione cui è stato promesso un mondo che poi non gli è mai stato consegnato. Siamo anche una generazione priva di rivoluzioni o di grandi movimenti di cambiamento. Non abbiamo fatto il ‘68, non abbiamo vissuto davvero il ‘77 perché troppo giovani, ma abbiamo assorbito gli anni ‘80 e il loro delirio imperialistico, commerciale ed edonista. L’unica volta in cui la mia generazione ha cercato di alzare un po’ la testa, con le proteste del G8, ha preso un sacco di botte e si è subito ritirata. Siamo rimasti una generazione molto insicura ed egoista.
E lei pensa che questo momento di confronto e di lotta così forte manchi davvero alla sua generazione?
Oh, sì. Spero che gli manchi, mi piacerebbe che gli mancasse. Forse gli manca, ma non avrà mai il coraggio di metterlo in pratica.
Baudelaire diceva che c’è un solo modo per dimenticare il tempo: impegnarlo. È questo che cerca di fare Andrea durante il suo viaggio, non soltanto geografico, ma emozionale. Cerca di dimenticare il tempo che ha utilizzato fino a quel bivio della vita, ma non ci riesce perché pensa di non averlo mai davvero impegnato in qualcosa. Sente di vivere in una realtà dove l’instabilità è l’unico elemento di stabilità, dimostrandosi incapace di cercare una soluzione, bloccato in una indecisione continua. Anche nei confronti della sua compagna, Andrea non sceglie la via del confronto diretto, ma quella della fuga non annunciata, puntando a farsi lasciare più che a lasciare.
Tutto il romanzo è una grande fuga, ma con uno snodo. Fino a un certo punto della trama Andrea scappa “da” (dalla sua vita, dal suo lavoro, dalla sua compagna) e lo fa subdolamente, poi il suo baricentro si ribalta e inizia a scappare “verso” un posto da raggiungere, un luogo dove pensa di poter trovare la felicità. Andrea è stato arrabbiato per gran parte della sua vita, perché, rispetto alla generazione che lo ha preceduto, deve fare un passo indietro e non è contento di farlo. Poi qualcosa dentro di lui cambia, trova la giusta motivazione ed è capace di compiere azioni risolute e totalmente inaspettate.
«La scrittura è una ricerca continua per comprendere il mondo che mi circonda da diversi punti di vista». È una sua frase che si rispecchia in molte scelte narrative che compie con questo romanzo. Mi ha colpito per esempio l’accezione di immigrazione che offre nel suo libro. È Andrea l’italiano di oggi, integrato (o presunto tale) in un sistema sociale e relazionale occidentale, che decide di cercare un nuovo modo di vivere in un altro paese, trasformandosi in un’ombra, in un clochard, in un irregolare. È un punto di vista utile agli italiani che vedono l’immigrazione come un sistema a senso unico dall’Africa all’Europa?
È un po’ come quando il professor Keating (protagonista del film L’attimo fuggente di Peter Weir [ndr]) sale sulla cattedra per invogliare i suoi studenti a osservare la realtà da un diverso punto di vista. Sono sempre alla ricerca di quel nuovo punto di vista attraverso le mie storie. Quando parliamo di immigrazione pensiamo a chi arriva da noi, ai nostri padri che sono arrivati a Ellis Island o alla nostra immigrazioni di elite (cervelli in fuga). Oggi ci sono 500.000 italiani che vivono in giro per il mondo come irregolari. È un dato importante su cui riflettere.
La vacanza ideale di Geda è in un museo, a contemplare il bello che lo circonda, steso sopra un’amaca. Passione che ha trasmesso anche al suo protagonista, che passa un’intera settimana chiuso nel Metropolitan Museum di NYC a fissare un dipinto di Rembrandt. Andrea è appena fuggito dalla sua compagna e dalla sua vita per andare in America a vedere una mostra. Quella che doveva essere una scusa per partire, sembra diventare all’improvviso il fulcro della sua ricerca. Andrea entra nel museo ogni mattina, saluta il custode e poi si siede a guardare Il ritorno del figliol prodigo, aspettando di poter “entrare nel dipinto”. Perché ha scelto proprio questo quadro e quanto sono importanti per il protagonista le sue piccole sindromi di Stendhal?
Il dipinto mi sembrava rappresentativo di un percorso. Molti anni fa lessi un libro del teologo olandese Henri Jozef Machiel Nouwen L'abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, in cui l’autore faceva un’analisi spirituale del figliol prodigo di Rembrandt. L’idea da cui sono partito è che tutti noi ci identifichiamo con il figliol prodigo, perché tutti quanti vogliamo essere accolti, abbracciati e guariti, ma molto spesso noi siamo l’altro figlio, il maggiore. Siamo quelli che sono rimasti a casa a fare ciò che ci veniva detto per ottenere la propria tranquillità, per diventare il padre accogliente per un altro figliol prodigo. Il dipinto diventa lo stampo perfetto su cui incardinare la storia di Andrea Luna. Nel momento in cui il mio personaggio vede il quadro inizia a oscillare, in dubbio sull’essere il figlio minore e il figlio maggiore insieme. Per comprendere dove cadrà la sua bilancia emotiva, Andrea dovrà ribaltare la propria vita. Così il quadro diventa la scintilla perfetta per quella trasformazione.
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Spesso, nei suoi romanzi, il protagonista è a un passo dal perdersi, ma come in un film di Frank Capra, è proprio quello il momento in cui un sistema di relazioni inatteso lo salva, costringendolo a impegnarsi in qualcosa. È davvero così risolutivo il gruppo (non virtuale) per il singolo individuo?
È esattamente così. Io ho un’idea di comunità supportiva che mi piace mettere in scena ed è quella che vorrei vivere. La famiglia Patterson , Walter Quinn sono persone che aiutano il protagonista a fare un pezzo di strada. C’è un proverbio africano che mi piace ricordare che dice: «per educare un bambino ci vuole un villaggio.» Quando facevo l’educatore me lo ripetevo in testa, per ricordare che ero indispensabile ma non ero sufficiente da solo a educare un bambino. È necessario un circuito di persone per crescere. Per tutta la vita abbiamo bisogno di questa comunità. Ogni membro di questa comunità modificherà leggermente la nostra traiettoria, ma solo la somma di più contatti ci rende ciò che siamo e può generare in noi un vero cambiamento.
A lei è mai capitato di avere bisogno di questa rete?
Certo. Io ho tante persone che considero amici, che mi hanno accompagnato per un pezzettino della mia vita, persone di cui ho o ho avuto bisogno.
Se la vita che salvi è la tua offre interessanti personaggi secondari. Penso ad esempio a Walter Quinn, il custode del Met con cui Andrea farà amicizia. Dispiace non sapere cosa gli accadrà dopo il passaggio di Andrea. Le è mai capitato di innamorarsi di un personaggio “minore” e di inventare per lui un’altra storia?
Forse proprio con Walter in questo libro ho avuto la tentazione di farlo. Ho pensato anche a uno spin-off della storia, per lasciare che Walter sviluppasse la propria. È una persona molta semplice, che non ha fiducia nelle parole, ma nelle azioni, nell’esempio. Ha una visione molto personale della felicità, credendo che dipenda esclusivamente dalla nostra visuale sul mondo. Io adoro i personaggi secondari, che amo cesellare anche se compariranno per poche pagine.
So che ha frequentato la scuola Holden, penso più di dieci anni fa, se la sente di fare un bilancio? Consiglierebbe a una persona che vuole fare lo scrittore di frequentare questo tipo di corsi?
Io non ho frequentato il master della scuola Holden, come ha fatto Giorgio Vasta o Pietro Grossi. Un percorso straordinario di due anni. Io ho fatto dei percorsi laboratoriali che aiutano a capire come uno scrittore smonti e rimonti il proprio lavoro, ma anche quale sia la propria voce. Lo scrittore è un artigiano con un indole artistica molto forte, che può arrivare a un buon prodotto finale se armato di impegno e tenacia, impadronendosi del suo mondo attraverso le parole.
C’è un autore fra quelli incontrati alla scuola Holden che ricorda con particolare affetto?
Forse Davide Longo perché arrivava proprio dalla scuola ed era particolarmente efficace nel fornire una mappa da percorrere quando si inizia a lavorare a un romanzo.
Quanto tempo ha impiegato per scrivere questo romanzo e esiste una giornata scrittoria tipo per Fabio Geda? Ha dei rituali, dei bisogni, dei tempi personali in cui gli altri non possono entrare?
Tutti i miei romanzi li scrivo in un arco di tempo di un anno. Se si parla di pura scrittura. Questa storia è entrata nella mia testa a giugno del 2008, quando ho incontrato a New York un ragazzo napoletano che lavorava irregolarmente in America. L’idea dell’italiano clandestino in America mi ha cominciato ad allettare e da lì lentamente è nata la storia. Ho cominciato però a scriverla a febbraio 2013. Quindi ho avuto tre anni di gestazioni e di appunti. Solo quando sento davvero che la storia diventa un’ossessione, inizio a scrivere. A quel punto divento metodico. Mi alzo la mattina, faccio il caffè e mi metto a lavorare. Non è detto che scriva ogni giorno, ma è necessario rimanere di fronte al computer a scavare nella storia ogni mattina.
Ci sono dei libri che ha letto mentre scriveva e che ha usato come ispirazione?
Ogni mio libro si è portato dietro dei feticci. Libri che leggo finalizzati alla mia storia, per contenuto o per stile cui vorrei ispirarmi per il romanzo. In questo caso i racconti di Flannery O’Connor, cui faccio riferimento per il titolo del romanzo, sono stati un punto riferimento per la lingua, ispirandomi alla sua maniacale perfezione, alla chirurgia delle sue scelte sintattiche, alla sua esattezza.
Ci racconta se sta già lavorando al prossimo libro?
Sì, perché io lavoro sempre a un nuovo libro. Ma non ho ancora scelto il tema forte su cui concentrarmi. Adesso ritornerò a New York per un mese, lì ho tanti amici. È una città per me irresistibile. Una città in cui sto benissimo. Posso spiegare perché amo così tanto New York dicendo che amo come sto io quando sono lì. Mi sento vivo, connesso a un altro livello di tensione. È un posto straordinario per pensare.
Mi piacerebbe concludere con il Festivaletteratura di Mantova che l’ha da poco ospitata. Ci sono molti festival letterari in Italia, come sceglie quelli cui partecipare?
Io scelgo in base a quanto ho la percezione che il pubblico e il festival siano concentrati esclusivamente sul libro, senza troppe distrazioni. I festival devono avere un focus specifico e devono porsi come obiettivo quello di condividere idee. Il Festivaletteratura mi piace perché incontro le persone, condivido pensieri e imparo. Mantova presenta le idee più interessanti che ci sono in giro per il mondo e su di esse apre un contraddittorio.
Grazie per il suo tempo e a presto.
Grazie a voi.
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