Scrivere per leggere di sé. Fernando Pessoa e il Libro dell’inquietudine
Come Prometeo che modella l’argilla per creare figure maschili e femminili candidate a divenire uomini, Fernando Pessoa plasma i suoi eteronimi costruendogli intorno caratteristiche talmente umane da sembrare biografiche. Bernardo Soares è uno di quegli eteronimi dentro il più bel diario del Novecento: Livro do desassosego por Bernardo Soares.
Dalla prima edizione portoghese del 1982, l’opera arriva in Italia quattro anni dopo, tradotta da Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, con il titolo Il libro dell’inquietudine.
La selezione dei 259 frammenti italiani – ordinati su un criterio di ricerca dei nessi logici entro i quali Pessoa avrebbe ipoteticamente costruito il libro mai ultimato –, ci appare come un cammino dentro la mente di Soares. Il lettore trova nelle parole di Pessoa astrattezze, riflessioni, compiacimento, amarezze. Una voce interiore costante che parla non per descrivere fatti ma impressioni:
«Nella mia anima ignobile e profonda registro, giorno per giorno, le impressioni che costituiscono la sostanza esterna della mia consapevolezza di me. Le traduco in parole vagabonde che mi disertano nel momento in cui le scrivo e che vagano, indipendenti da me, per pendii e prati di immagini, per viali di concetti, per sentieri di confusioni. E questo non mi serve a nulla, perché niente mi serve a nulla. Ma mi libero dalla preoccupazione scrivendo, come uno che respira meglio anche se la malattia non è passata.» [147]
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Soares guarda il mondo attraverso una finestra chiusa su quel mondo. Ne appanna i vetri con il proprio “male di vivere” come fa il vapore acqueo su uno specchio. Nulla gli appartiene di ciò che sta fuori di lui perché è tutto dentro. Una proiezione continua del suo animo attraverso l’unica cosa che abbia un senso: scrivere per leggere di sé.
«[…] Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire. Quello che confesso non ha importanza perché niente ha importanza. Con ciò che sento costruisco dei paesaggi. Fabbrico delle vacanze con le sensazioni […]» [25]
In questa traduzione di immagini mentali Soares-Pessoa ha come unica amica la penna: durante il giorno la usa per tenere la contabilità della ditta di tessuti per cui lavora come impiegato di concetto; durante la notte e nell’attesa di essa la consuma per accompagnare la propria solitudine scrivendo il suo diario.
A noi lettori di questo Libro, il compito di aprire quella finestra senza troppa inquietudine per percorrere la “Baixa” pombalina – vecchio centro commerciale di Lisbona dove si trova l’ufficio di Soares –, con la Rua dos Douradores (la via dei doratori), la via dei merciai, dei calzolai, dei conciatori, e la vita stessa di Ferdinando Pessoa che, in una lettera, definisce Bernardo un semieteronimo «perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività».
E poi, se ci riusciamo, lo leggiamo per apprendere da Soares che “uno stato d’animo è un paesaggio”:
«Queste parole improvvisate mi sono state suggerite dalla grande estensione della città vista alla luce universale del sole, dall’alto belvedere di S. Pedro de Alcântara. Tutte le volte che contemplo una vasta distesa, e mi libero dal mio metro e settanta di altezza e dai miei sessantun chili di peso nei quali fisicamente consisto, rivolgo un sorriso fortemente metafisico a coloro che sognano che il sogno è sogno, e amo la verità dell’esterno assoluto con una virtù nobile dell’intelletto.» [63]
Sembra quasi che tutto, in questi frammenti di diario, possa essere riconosciuto come “paesaggio”, anche la memoria di alcuni fatti narrati dall’autore che ci riconducono al tempo della sua infanzia, ricordata attraverso la prosa del disincanto novecentesco e forse ancora più indietro nell’universo letterario:
«Quando mi trasferii a Lisbona, nell’appartamento sopra il nostro c’era una musica di pianoforte che eseguiva esercizi di scale, il tirocinio monotono di una bambina che non ho mai visto. Scopro oggi che, a causa di processi di infiltrazione che disconosco, ho ancora nelle cantine dell’animo, udibili se si apre la porta, le ripetute scale della tastiera della bambina che oggi è una signora, altra, o morta, e racchiusa in un luogo bianco dove i neri cipressi verdeggiano. […] Mi invade, per il fatto di considerarlo o di sentirlo, una tristezza diffusa, angosciosa, mia.» [57]
“Una tristezza” che diventa cifra del Libro sin dal titolo e che grazie al linguaggio fluido del suo autore arriva a noi con metafore che sfiorano il sublime. L’inquietudine, così, diventa controllabile e intellegibile. La lettura di Pessoa prosatore è enigmatica quanto quella del poeta portoghese fra i più rappresentativi del Novecento letterario; l’obiettivo sembrerebbe quello di creare fino alla morte e di scrivere in quella che egli stesso definì, tramite Soares, “la mia patria”, cioè la lingua portoghese, sebbene gli anni giovanili trascorsi a Durban (in Sudafrica), lo avessero avvicinato nel profondo alla lingua e alla letteratura inglese.
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Il suo corpo, consumato dall’alcool, cede a soli quarantasette anni. Il diario rimarrà incompiuto, sospeso tra frammenti di cui uno, in particolare, ce lo riporta tra i dettagli che accendevano la sua vita:
«Seduto nel tram osservo con calma, com’è mia abitudine, i dettagli dei passeggeri che mi siedono di fronte. I dettagli sono per me cose, voci, lettere. Separo il vestito della ragazza che è davanti a me dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo (poiché lo vedo come vestito e non come stoffa), e il ricamo leggero che orla il colletto mi si divide nel filo di seta ritorto con il quale è stato ricamato e nella lavorazione che c’è voluta per ricamarlo. E immediatamente, come in un libro elementare di economia politica, si aprono davanti a me le fabbriche e le lavorazioni: la filanda dove è stato fatto il tessuto; la filanda dove è stato fatto il filo di seta ritorto, di un tono più scuro, che orla con increspature ricamate la stoffa del colletto; e vedo le sezioni delle fabbriche, le macchine, gli operai, le sarte, i miei occhi rivolti all’interno penetrano negli uffici, vedo i dirigenti che cercano di essere tranquilli, seguo sui libri la contabilità di ogni cosa; ma non è solo questo: vedo, più in là, le vite domestiche di coloro che vivono la loro vita di esseri umani in quelle fabbriche e in quegli uffici…Il mondo intero mi si srotola davanti agli occhi soltanto perché ho davanti a me, sotto un collo bruno che dall’altra parte ha un volto che ignoro, un orlo irregolare-regolare di un verde scuro sopra il verde chiaro di un vestito…La testa mi gira. I sedili del tram, con una trama di una paglia resistente e sottile, mi portano a regioni lontane, mi si moltiplicano in industrie, operai, case di operai, vite, realtà, tutto.
Scendo dal tram esausto e sonnambulo. Ho vissuto tutta la vita.» [113]
Per la prima foto, copyright: Nathan Dumlao.
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